CGIL NAZIONALE

Dipartimento Diritti di Cittadinanza e Politiche dello Stato

MOVIMENTO ITALIANO TRANSESSUALI

TRANSGENDER INTERNATIONAL

 

CONOSCENZA, SOSTEGNO, PARI OPPORTUNITA’

Confronto politico-informativo sul transessualismo

14 luglio 1995

CGIL Nazionale - SALA Simone Weil

C.so D’Italia, 25

Roma

 

Testo raccolto e coordinato da

Maria Gigliola Toniollo

Dipartimento Nazionale Diritti di Cittadinanza e Politiche dello Stato - CGIL

 

Molti amici e amiche, compagni e compagne hanno collaborato alla riuscita di questa iniziativa. Un ringraziamento particolare va a

Marcella Barionovi
Stefano Campagna

Roberta Franciolini

Stefano Oriano

Vanna Palumbo

Marina Trio

I am not gender dysphoric, but gender euphoric

Susan Stryker

Il grande problema italiano rispetto al transessualismo è quello di una mancanza completa di identità sociale e collettiva.

Ciascuna/o di noi ha dovuto affrontare il suo percorso in completa solitudine, senza punti di riferimento precisi, fossero essi fisici, nel senso di locali, organizzazioni, gruppi di supporto, oppure psichici, nel senso di, mi si scusi il gioco di parole, un senso di appartenenza, esistenza, una storia in positivo rivendicabile.

Quello in pratica che nella cultura nera si chiama un modello di ruolo. Nel ghetto nero americano, ed il transessualismo in Italia, vive in una condizione oggettiva di autoghettizzazione culturale (piuttosto che di ghettizzazione a causa della repressione della morale corrente), il ragazzino o la ragazzina afroamericani hanno degli idoli, appunto dei modelli di ruolo, siano essi giocatori di pallacanestro, cantanti soul, rappers, attori o comici televisivi, che rappresentano un modello ispirativo, tracciano un percorso storico a cui far riferimento, determinano un senso di appartenenza; "lui/lei ce l'ha fatta, è uscito/a dal ghetto ed è diventato/a una persona amata, rispettata, perfino ricca. Perciò posso farcela anch'io".

Il modello di ruolo determina la consapevolezza che una possibilità, seppur minima, esiste, e lui/lei ne è la prova vivente. La scena transessuale, e vorrei usare ora anche la parola transgender non ha dei Magic Johnson, degli Ice-T, delle Withney Houston, perfino delle Oprah Winfrey o degli Arsenio Hall a cui fare riferimento. A cui rapportarsi per andare a definire pubblicamente la propria condizione con il prestigio dell'appartenenza, della corrispondenza.

Evidente che questo non è affatto un momento ideale, di arrivo, visto che ciascun essere umano dovrebbe essere svincolato da modelli comportamentali ed essere fiero del suo stesso proprio essere, ma quando si vive una condizione di minoranza oggettiva, l'avere modelli di ruolo è un punto di partenza terapeuticamente e didatticamente importantissimo per andare a costruire la propria self-esteem, la propria autostima, la propria fierezza di esistere piuttosto che vergognarsi della propria condizione o di proprie scelte vissute come marginali, sottoposte alla pubblica commiserazione, in ultima analisi perdenti.

Inoltre in Italia, come dicevo precedentemente, mancano anche dei punti di riferimento tecnici, pratici, organizzativi. Con ciò non vorrei entrare in polemica con il MIT, che tantissimo di assolutamente fondamentale ha fatto negli anni passati, ma oggi, nel 1995, la situazione non è affatto rosea. Una sola sede ufficiale, a Bologna, è davvero troppo poco. Ed anche la buonissima volontà di tutte quante, con lavoro volontario, hanno dato vita alle varie trans lines ed help lines telefoniche, anche semplicemente rendendo pubblico il proprio numero di casa, è assolutamente meritorio ma purtroppo altrettanto assolutamente insufficiente.

Il rapporto è per forza di cose troppo mediato, frammentario, e per quanto il contatto umano sia assolutamente essenziale, non può arrivare ai risultati che hanno le varie associazioni di self help sparse un po' per tutto il mondo. Solo in Germania, ad esempio, ci sono una quindicina di gruppi informati auto-organizzati, nelle principali e non solo città, che fanno riferimento sia alla scena transessuale-transgender che a quella dei cross dressers (i travestiti eterosessuali) e che hanno la funzione di lenire eventuali sensi di colpa, paure, incertezze, e di fornire di energia motivazionale rispetto alle proprie scelte ed al proprio percorso.

E/o anche, perché pure questo è fondamentale, fornire informazioni mediche, sanitarie, bibliografiche, e non frammentariamente via telefono, ma in forma concreta e documentata, spesso in sedi dove esistono archivi, data bases e quant'altro.

La quasi nulla diffusione del termine del transgender in Italia è proprio dovuto alla mancanza di queste strutture e del susseguente dibattito politico e culturale, e non del mero scambio di informazioni sugli indirizzi dei chirurghi (utile ma assolutamente non sostitutivo di tutto il resto).

"Transgender" fa appunto riferimento ad una consapevolezza politico-culturale. Definisce il senso di appartenenza al di là di una dinamica binaria bipolare, dove invece vengono prese in considerazione tutte le possibili posizioni intermedie e viene data loro una piena dignità nell'esistente, proprio perché frutto di un percorso individuale e soggettivo ma conscio della sua interazione con l'ambiente e la collettività in generale.

Transgender può essere quindi una drag queen, un bisessuale estremamente femminile o una lesbica che non sta al gioco dell'immaginario da camionista, oppure l'esatto contrario, o ancora la transessuale o il transessuale che non intendono operarsi. O quelle/i che l'hanno fatto ma non per questo hanno aderito supinamente agli stereotipi del gender di scelta. Transgender è quindi chi ha messo in crisi la sua identità di genere definita dalla sua condizione genitale, e ha deciso di vivere le proprie scelte indipendentemente da ogni forzatura ed incasellamento. Una scelta forse radicale, ma in forme più lievi, estremamente più comune di quel che si creda.

Il transgenderismo quindi ingloba perfettamente anche il transessualismo nel suo spettro di identità possibili, anzi quest'ultimo ne diventa proprio l'esempio totale, rispetto alla volontà di mettere in atto anche una serie di modificazioni oggettive al proprio corpo e alla propria struttura chimico-ormonale.

Proprio attraverso la proposizione di una visione rivendicativa del proprio essere, e del proprio percorso transizionale, il transgenderismo risponde a questo vuoto di identità proprio della situazione italiana.

In qualità di (donna nel mio caso), transgender io non sono una persona affetta da patologie medico-sanitarie, afflitta da schizofrenia e sottoposta alla tragedia della non corrispondenza tra la mente e il corpo, ma sono una persona consapevole di aver scelto di essere ciò che vuole essere indipendentemente da condizioni anatomiche oggettive date. Credetemi fa una notevole differenza.

Rivendicarsi proponendosi agli altri come persona libera, dotata del coraggio di fare scelte radicali, di mettere in crisi la cultura dominante dello status quo, è tutt'altra cosa che mendicare tolleranza e considerazione per la propria sofferenza.

E' la differenza tra il concetto di dolore in Leopardi ed in Che Guevara, ed anche l'estrema differenza pur in corrispondenza di morte prematura, delle loro vite. Dopodiché chiunque può scegliere comunque il percorso che desidera, compreso quello altrettanto legittimo dell’auto-struggimento narcisistico, ma l'importante è che questa non sia l'unica possibilità proponibile.

L'attuale condizione italiana è quella in cui siamo tutte/i apparentemente destinate/i ad un percorso in solitario, senza appunto punti di riferimento, rinchiuse nella solitudine della propria cameretta o nell'incomunicabilità del proprio angolo di marciapiede, laddove la prostituzione è vista come unica possibilità di guadagnarsi un'accettazione sociale altrimenti impossibile.

In realtà, dentro di noi, e parlo solo per noi donne transessuali, perché per i ragazzi entrano in gioco altre condizioni, sappiamo benissimo che non è affatto così e che le motivazioni che hanno spinto a tali scelte sono, nella maggioranza dei casi ben altre, a volte come scelte individuali assolutamente lucide e personali di autodeterminazione economica altre volte determinate da tragiche necessità di una forma surrogata di accettazione rispetto a se stesse e rispetto al mondo, della propria identità di gender scelta.

O, detto in altri termini, della totale mancanza di self esteem, di capacità di proporsi per quello che si è senza mendicare il riconoscimento della propria femminilità ai Maschi Bianchi Eterosessuali, che viene portata in bilancio positivo solo dalla corrispondente intermediazione economica.

Non solo, ma l'immaginario della prostituzione (fenomeno che, sia detto chiaramente, riguarda solo una percentuale piccolissima delle transessuali ed una percentuale nulla, anche per ovvi motivi, dei transessuali) come unica spiaggia possibile finisce per proporsi come deterrente alla transizione rispetto a molte persone che potrebbero guadagnarsi la dignità delle proprie scelte a scuola o sul proprio posto di lavoro, senza trovarsi a dover combattere assurdi preconcetti e discriminazioni oggettive basate su presunte "inclinazioni naturali" delle transessuali.

Nel dibattito culturale della scena transgender internazionale la questione prostituzionale è pressoché assente, o se emerge, lo fa con la stessa portata di significante rappresentativo di una recente discussione sul "voler fare la segretaria" perché questo viene considerato il lavoro femminile per eccellenza.

Scelta individuale, cosciente, ricca di motivazioni, certo, ma non condizione inevitabile, drammatica ed esclusiva.

Questo perché l'approccio transgender ha fornito di una identità rivendicata, cosciente ed esibita come qualcosa di aggiuntivo, non come un handicap od un problema da nascondere, subire e soffrire.

Ciò che dobbiamo fare, e tutte/i noi siamo chiamate/i a responsabilizzarci in prima persona, è creare anche in Italia una identità collettiva positiva, rivendicativa e gioiosa, che ci permette di vivere più felicemente il ventaglio di possibilità che la vita ci offre, e che permetta alle/ai più giovani, che stanno mettendo in crisi la loro identità di gender data, o stanno iniziando un percorso di transizione, di non passare attraverso il solitario calvario di problemi ed insicurezze che, bene o male, tutte/i noi abbiamo dovuto attraversare.

HELENA VELENA

Transgender International

MARIA GIGLIOLA TONIOLLO

Dipartimento Nazionale Diritti di Cittadinanza e Politiche dello Stato - CGIL

Il confronto politico-informativo sul transessualismo "Conoscenza, sostegno, pari opportunità" proposto e organizzato dal Dipartimento Diritti di Cittadinanza e Politiche dello Stato della CGIL Nazionale assieme ad alcuni esponenti del M.I.T. e del Transgender International, é stato per il sindacato l’inizio di una straordinaria esperienza culturale e sociale: il fine vero infatti, come dirà più avanti Marina, non é in realtà quello di tutelare alcuni, ma di costruire una società civile....".

Nella giornata, testimonianze e relazioni, a volte di notevole complessità, si sono alternate assai numerose: l’intento era quello di tratteggiare un primo grande quadro con l’ambizione di renderlo tuttavia il meno incompleto e approssimativo possibile. Sono state così rappresentate, anche se soltanto in prima analisi, diverse sfaccettature della realtà transessuale, nella coscienza che la parzialità delle tante discipline, delle leggi e dei regolamenti -psicologia, medicina, giurisprudenza, controllo di Polizia, ecc.- andasse a comporsi in un unico mosaico e a descrivere una figura forte e di grande fierezza. Non più quindi un immaginario e tanto meno una realtà popolata di ambigue ombre, succubi in una sorta di tragedia -la non corrispondenza tra mente e corpo-, ma al contrario una formidabile avanguardia, un mondo di soggetti-pilota che vogliono essere ciò che hanno scelto di essere, indipendentemente dalla propria situazione anatomica e contro qualunque condizionamento sociale. Come dice Helena "... rivendicarsi, proponendosi agli altri come persona libera, dotata del coraggio di fare scelte radicali, di mettere in crisi la cultura dominante dello status quo, é tutt’altra cosa che mendicare tolleranza e considerazione per la propria sofferenza...".

Il più ampio riconoscimento per aver intrapreso le prime aspre battaglie in tempi abbastanza lontani e forse più difficili va dato indubbiamente al Movimento Italiano Transessuali, le cui maggiori esponenti attuali, Marcella Di Folco e Roberta Franciolini, figure storiche del Movimento, proseguono ancor oggi nel loro impegno politico e sociale. Quando, ormai quasi venti anni fa, nacque il M.I.T. "la questione transessuale" era pressoché sconosciuta in Italia. Le transessuali per la prima volta organizzate in vista di ottenere una legge per la rettifica anagrafica del sesso, un minimo indispensabile vitale oggi come allora, fecero scalpore con le loro adunate davanti a Montecitorio. Oggi, come si sosterrà da più parti di seguito, forse é nuovamente tempo di battersi contro il pregiudizio, tempo di nuovi messaggi di libertà.

 

ANNA RITA RAVENNA

Psicoterapeuta

Psicofisiologia clinica , Facoltà di Psicologia

Università "La Sapienza" - Roma

Sono psicologa e psicoterapeuta, qui in veste di coordinatrice di un gruppo di studio, ricerca, e applicazione clinica sui "disturbi dell'identità di genere": per parlare del tema comunemente definito transessualismo preferisco la dizione disturbo dell'identità di genere piuttosto che disforia di genere.

Il termine disforia, così spesso utilizzato per indicare queste situazioni esistenziali, si trova sul vocabolario italiano, sui dizionari psichiatrici: ma questo è proprio il contesto cui voglio sottrarmi come operatore del settore; credo, tra l'altro, che questa sia anche una delle lotte più significative del Movimento Italiano Transessuali (MIT).

Non uso quindi, volentieri questo termine, benché sia un termine adottato a livello internazionale - per esempio l'Organizzazione Mondiale "Harry Benjamin" si è costituita come Fondazione sulla disforia di genere -, ed intendo sottolineare come l'accezione psichiatrica non lasci spazio per una problematica che noi consideriamo molto più ampia rispetto al concetto di disforia. Questa diagnosi è posta infatti in presenza di disturbi dell'accettazione di sé, in qualche modo anche del proprio corpo, ed in relazione al mondo affettivo e al mondo degli umori, degli stati d'animo. Dal nostro punto di vista, non solo in quanto gruppo di studio, ma anche come persone che si confrontano ed amano confrontarsi costantemente con la realtà, la dizione identità di genere apre lo spazio ad una più ampia problematica che dà conto non solo della situazione di alcune persone che possono essere identificate secondo i parametri diagnostici della psichiatria, del Manuale diagnostico e statistico, etc., ma dà conto di una situazione esistenziale che nella nostra esperienza ha dimostrato di essere molto ampia e variegata.

Dal nostro punto di vista, quindi, abbiamo delle "persone in situazioni", persone non riconducibili ad etichette, a concettualizzazioni, ad idee che se ci rendono più facile, più agevole l'analisi della realtà, rischiano comunque di essere confuse con la realtà stessa.

La definizione disturbi dell'identità di genere, accolta anche nel nuovo Manuale diagnostico (DSM IV), introduce, tuttavia, un concetto che molte persone che vivono in questa condizione non accettano fino in fondo: il disturbo.

Alcune persone, infatti, che non si sentono affatto disturbate. Proprio in questo senso a noi appare valido il concetto di situazione esistenziale, Ogni persona ha la propria situazione esistenziale caratterizzata da vissuti altamente soggettivi, con delle peculiarità e delle particolarità che difficilmente si categorizzano, le categorie cui far riferimento sono sempre insufficienti.

Il termine identità di genere, invece, che è termine di uso recente anche nel mondo psicologico, (Moneys, 1986), dà ragione di un aspetto della condizione che si presenta con svariate modalità, con miliardi di sfaccettature, per qualsiasi essere umano.

L'espressione identità di genere indica la capacità di ognuno di noi di riconoscersi, di sentirsi e di trovarsi a proprio agio nell'appartenenza al genere maschile o femminile o anche in una situazione di ambivalenza rispetto ai due generi.

La consapevolezza in quanto soggettività è la caratteristica su cui si fonda l'identità di genere di una persona.

Noi immaginiamo dunque un continuum, una retta i cui estremi sono rappresentati da "maschile" e "femminile". Questi due modi di essere sono presenti entrambi nell'animo umano, ma si differenziano mi soffermerò più avanti su questo, dai concetti "uomo/donna, maschio/femmina". La maggior parte delle persone si identificano in questi due estremi, prevalentemente attraverso la struttura dei propri organi genitali, ma anche attraverso comportamenti, modi di essere, stati d'animo, caratteristiche individuali, tratti di personalità.

Ognuno di noi si muove su questo continuum tra queste due caratteristiche concettuali più o meno ampio.

Tutti quanti possiamo riconoscere dei comportamenti, dei tratti di personalità che all'interno di una società, quindi in un insieme di norme comportamentali culturalmente dato, permettono di identificare modi di essere "maschili" e "femminili" o per meglio dire, da un punto di vista psicologico, come espressione della parte maschile o la parte femminile di noi stessi.

La realtà fin qui descritta è ben diversa comunque dalla problematica che si apre quando una persona in età adulta vive una forte incongruenza tra la propria identità psichica e la propria identità fisica.

Il nostro gruppo di lavoro ha scelto il termine disordine o disturbo - in inglese disorder - perché al di là delle categorie psichiatriche permette di considerare la difficoltà vissuta da queste persone, per tempi più o meno lunghi; si tratta di un disagio che porta a cercare un nuovo adattamento alla realtà nel momento in cui il proprio stile di vita risulta pesantemente insoddisfacente.

Tutti, sin dal concepimento, siamo portatori nel Dna, nel nostro patrimonio cromosomico, di caratteristiche che permettono lo sviluppo dell'embrione umano secondo una linea evolutiva che porterà alla strutturazione di organi sessuali primari e secondari maschili o femminili soprattutto attraverso produzione di ormoni che esercitano la loro funzione su strutture e tessuti anche a livello cerebrale.

Durante i nove mesi dello sviluppo prenatale si struttura, quindi, una realtà anatomica e funzionale, che, al momento della nascita attraverso l'individuazione delle caratteristiche degli organi genitali, costituirà l'identità socialmente riconosciuta e tipicizzata nella trascrizione anagrafica del nostro sesso: maschile o femminile.

Non si tratta comunque di uno sviluppo lineare ma di un percorso che non solo dura nel tempo ma vede intrecciarsi molteplici componenti in modo molto complesso e che può generare delle incongruenze.

Alla struttura anatomica di sesso chiaramente definito, maschile o femminile, corrisponde una presenza nel patrimonio cromosomico di una coppia di cromosomi X-X per le donne e X-Y per gli uomini.

Con i mezzi che attualmente la Scienza mette a nostra disposizione, non troviamo alcuna differenza nelle persone cosiddette transessuali; le persone da noi seguite hanno un patrimonio cromosomico, una realtà ormonale ed anatomica del tutto corrispondente al sesso che è stato attribuito loro alla nascita, né in letteratura per quanto a noi risulta, sono riportati dati differenti. Ci troviamo, quindi, di fronte al sesso biologico, (ormonale e sesso anatomico), al sesso anagrafico e al percorso con cui ciascun individuo costruisce la propria identità.

La costruzione dell'identità è quindi un processo con cui la persona, a partire dal concepimento sviluppa quelle caratteristiche specifiche che lo rendono essere unico al mondo, unico e irripetibile, nonché la consapevolezza di questa unicità, della differenza da tutti gli altri esseri umani.

Questo processo gli psicologi chiamano individuazione, lo sviluppo cioè della capacità del bambino di separarsi prima dal grembo materno, con la nascita e poi dalla simbiosi con la madre inizialmente fondamentale per la sua sopravvivenza ma che gradualmente deve lasciare il passo alla nascita psicologica (Malher, 1982).

Psicologicamente l'essere umano non nasce al momento del parto: biologicamente nasce al momento del concepimento, socialmente nasce al momento del parto psicologicamente nasce man mano che il processo di individuazione, cioè di percezione di sé stesso come individuo separato, unico e irripetibile, si va strutturando.

Questo processo di struttura, fondamentalmente, attraverso due linee: la prima percezione corporea del proprio essere a livello psico-fisiologico, quindi corporeo e la relazione con le persone significative del mondo esterno, prima di tutto chi si occupa di lui, mediamente la madre, ma non per forza e poi, pian piano che la capacità relazionale si sviluppa, con tutto il mondo relazionale.

In questo modo, piano piano, l'essere umano acquista consapevolezza della propria identità personale, di essere una persona separata dall'altro, di essere un individuo, di esserci nel mondo e di chi personalmente lui è.

Una delle componenti fondamentali dell'identità personale è l'identità di genere. Possiamo assumere che normalmente - come dato statistico -, l'identità di genere si struttura nel periodo che va dalla nascita ai tre anni e tra uno e tre anni il bambino comincia ad auto-riconoscersi, ad auto-riferirsi.

In una fase precocissima - prima del compimento del primo anno di vita - iniziano ad arrivare i primi input sia fisiologici, provenienti dal corpo, sia esterni, provenienti dalla relazione con l'altro, che indicano al bambino la sua assegnazione ad uno dei due generi in cui l'umanità per convenzione, viene suddivisa: uomo/donna, maschio/femmina.

E' questo il punto di crisi per l'insorgenza dei disturbi dell'identità di genere. E' in questa fase del processo di sviluppo che inizia a prendere consistenza un vissuto personale che non corrisponde alla struttura anatomico-funzionale della persona, si evidenzia pian piano un'incongruenza tra la struttura fisica e l'identità psichica che il bambino si va costruendo.

I bambini inizialmente non ne sono assolutamente consapevoli; esprimono i loro desideri, scelgono i giocattoli, scelgono i compagni di giochi, si muovono in qualche modo, fantasticano molte cose; molti bambini, col tempo, fantasticano che prima o poi gli organi genitali si modificheranno fino ad assumere l'aspetto di quelli desiderati.

A seconda della flessibilità dell'ambiente parentale e sociale, a seconda dei valori espressi da questi ambienti, il bambino potrà vivere la propria realtà con un senso di maggiore libertà o di maggiore costrizione.

Il momento della pubertà e dell'adolescenza, momento delicato e di ristrutturazione della personalità per ogni essere umano, diventa un momento di crisi profonda per adolescenti con disturbi dell'identità di genere: il "bambino" ha ora acquisito tutte le capacità per analizzare una situazione di confusione più o meno problematica, ma comunque sicuramente di confusione nata dall'incongruenza dei messaggi tra mondo interno e mondo esterno protrattasi fino a quella età. Inizia qui il processo che lo porterà a chiedere a se stesso e, se ha bisogno di aiuto, agli altri come fare per uscire da questo stato di confusione con tempi e modalità per lui adeguati.

Questo stato dell'adolescente potrebbe sembrare facile da affrontare a prima vista; è, invece, uno stato di confusione profonda e di complesso disagio che genera, dolore profondo, molto spesso non verbalizzabile.

La persona, quindi, perde uno dei fondamentali strumenti di piacere e di evoluzione; la relazione con l'altro autentica, integrale, con tutto se stesso, così come si è. Sente di dover giocare una parte, di non avere mai la certezza di potersi esprimere realmente, così come sente di volersi esprimere.

A questo punto le scelte individuali gradualmente portano verso percorsi sempre più differenziati. La crisi adolescenziale che è, ripeto, una crisi globale che ha riguardato tutti quanti noi e credo continuerà a riguardare le generazioni future; è qui che si pongono gli interrogativi esistenziali: chi sono? come mi colloco rispetto ad una società che mi costringe ad individuarmi in uno specifico sesso, visto che ho un corpo strutturato in un certo modo? La mia spinta interiore è riconoscere me stesso nell'altro sesso, mio sviluppo psicologico mi ha portato a sentire un'identità opposta a quella che il mio fisico manifesta. Come mai?

Quello che vorrei sottolineare a questo punto é la distanza tra queste problematiche e l’universo suggerito dal termine "transessualismo".

Perché non abbiamo mai amato questa parola? Perché ci confonde, confonde questi problemi con ciò che ci veicolano i mass-media, ponendo l’accento su una componente erotico-sessuale che solo trasversalmente è implicata con il mondo dei problemi dell'identità di genere, che non si esauriscono, come i mass-media fanno credere, nel mondo del travestitismo e della prostituzione. La problematica di cui ci occupiamo non è assolutamente una problematica sessuale, se la intendiamo come disturbi, degli organi sessuali, disturbi nella relazione con l'altro e nel piacere sessuale. La parola sessuale ci fa pensare a questo.

Il problema dell'identità di genere, invece, non è un problema di questo tipo: è un problema di incongruenza tra tutto un modo di essere fisico e il proprio vissuto e il proprio sentire rispetto all'appartenenza di genere.

Quello che le persone chiedono è un riconoscimento sociale della propria identità psichica.

Una delle prime persone che ho incontrato, tantissimi anni fa, mi diceva, in un momento forte, perché doveva prendere delle decisioni: "Comunque mi muova sento che tradisco una parte di me." Stava per affrontare degli interventi e diceva: "Con gli interventi sento che tradisco - questa era la sua espressione - il mio corpo, se non li facessi, sento che tradirei la mia anima".

E', quindi, questa condizione esistenziale di sofferenza insopportabile, perché comunque ci si esprima si sente di essere in contraddizione con sé stessi, che in molte persone genera un grande disagio, un malessere psichico fortissimo; ed è questo che ha spinto le persone del nostro gruppo a lavorare sistematicamente in questo campo.

Infine vorrei sottolineare che cosa secondo noi distingue questa situazione da una problematica psichiatrica, da una psicosi, concezione in antitesi con molti nostri colleghi, specialmente il gruppo degli psicoanalisti ortodossi. In tutta la nostra esperienza, in tutte le persone che abbiamo incontrato il dato fondamentale sempre riscontrato è una conoscenza profonda di se stessi, assolutamente non allucinatoria, del tutto realistica unita ad una capacità di scelta, ad una non sempre chiara ma forte richiesta di aiuto in molti casi, richiesta di essere accompagnati in scelte di diverso tipo, non "per forza" in un iter pre-strutturato legale, medico, chirurgico, etc., ma anche in questo se la persona è perfettamente consapevole, determinata e cosciente.

Queste sono le caratteristiche della salute mentale, non della malattia mentale.

C'è un concetto che ho verificato già in un altro contesto e con altre problematiche e che Betty Leone sottolinea molto bene. Quando le istituzioni riconoscono una realtà, questa che già aveva la sua dignità per il semplice fatto di esistere trova nel riconoscimento pubblico un sostegno molto forte. Ricordo agli inizi della mia professione, lavoravo con donne operate di cancro al seno ci fu un cambiamento profondo nel vissuto personale di ognuna di queste donne quando il servizio sanitario nazionale iniziò ad autorizzare l'intervento di ricostruzione del seno presso strutture pubbliche, quindi gratuito. Queste donne si videro finalmente riconosciute in un bisogno e in un diritto che, già loro prima che il servizio sanitario lo riconoscesse, veniva comunque vissuto in modo altamente ambivalente: erano convinte di avere desideri folli, di assumere comportamenti futili da dive, madri di famiglia tranquille e serene come erano state per tanto tempo nella loro vita.

Il sindacato secondo me dovendo per statuto occuparsi della realtà lavorativa rende un servizio di questo tipo nell'assumersi chiaramente la tutela del lavoratore proprio in quanto transessuale. Oggi non è facile concordare su forme adeguate di tutela c'è da fare ancora un lavoro culturale forte; quando lo avremo fatto e lo stiamo facendo già con questo incontro, allora potremo avere in mano modalità definite anche se costantemente in divenire. Non è solo il proprietario d'azienda che oggi può discriminare a suo piacere la persona in cerca di lavoro, ma nella realtà culturale attuale ogni struttura pubblica (la nettezza urbana, l’INPS, il sindacato stesso assume delle persone). Se il sindacato si impegna nella battaglia per il riconoscimento dei titoli di studio, questo permette visibilità e diventa impegno contro la discriminazione, come la tutela di singole situazioni nel posto di lavoro privato, per esempio lì dove è possibile attraverso la chiamata ad personam. Occorre indurre un cambiamento culturale che non riguarda solo il transessualismo, ma la possibilità di essere vissuti come persone, ognuna con la sua specificità; se invertiamo l'ordine degli interventi, rischiamo di by-passare la possibilità di un cambiamento culturale più ampio, almeno a me così sembra.

Vorrei esprimere un'altra cosa che dentro di me sento chiarissima: ogni volta che mi incontro con Veronica la prendo come portabandiera di questo contrasto e rientro in crisi. Io lavoro nella relazione interpersonale con un modello che, per facilità di comprensione, chiamiamo psicoterapeutico, ma non ha nulla a che fare con il concetto di patologia; il modello utilizzato da me e quello più in generale della nostra équipe fa riferimento allo sviluppo della persona esistenziale in tutte le sue potenzialità qualsiasi sia la condizione, come trans, come ex trans come problemi di identità di genere, quella mia la definirò in altro modo, il punto focale dell'intervento è: come ognuno di noi può organizzarsi in modo per lui soddisfacente nel contesto in cui vive, decide di vivere, sceglie di vivere, è costretto a vivere? Una modalità di vita il più soddisfacente possibile per lui, secondo i suoi valori e parametri. Per me ogni individuo che chiede una relazione con me, è un individuo unico e specifico al cui servizio metto le mie competenze.

Il problema è che prima di pensarsi come corpi, che siamo già a un livello di sviluppo cognitivo da bambino grande, ci si sente come corpi, allora questo sentirsi come corpi, che è del bambino, dell'infante che si sente nel latte caldo che scende, che si sente in tutta una serie di cose, è determinato anche dall'immagine che l'altro mi rimanda di me come corpo, e io da psicologa, facendo la mia professione, non posso che insistere su un processo evolutivo che non è del transessuale, è degli esseri umani, in qualche modo teorico, perché noi ragionando facciamo teoria, è qui il punto; tu dici: "non posso che pensarmi come corpo", ma tu ti pensi come corpo così come il tuo corpo, attraverso i suoi input all'epoca, ti ha permesso di pensarti e attraverso il modo con cui gli altri hanno rispecchiato il tuo corpo e ti hanno rimandato i loro input sul tuo corpo.

Per essere anche molto pratica, a me sembra che l'invito a fare un gruppo di lavoro, o qualcosa di simile, è fondamentale, anche perché questo incontro in CGIL non sia solo il "14 luglio", abbia un domani. A partire dalla costituzione di questo gruppo di lavoro, mi sembra molto utile dare indicazioni precise rispetto ai tempi, e questo si può fare subito.

Mi viene in mente che, se la CGIL tirasse le orecchie ai rappresentanti sindacali CGIL del San Camillo, per chiedergli che fine ha fatto il progetto del Centro potrebbe essere una cosa semplice e diretta da fare in breve forse in 2 giorni. Poi vedere cosa si può fare con il Ministero della pubblica istruzione, perché ora abbiamo una ordinanza che sembra essere esecutiva solo nei confronti degli uffici anagrafici, occorre che sia esecutiva nei confronti di tutto ciò che dal cambiamento presso gli uffici anagrafici deriva.

Quando stabilirete di fare questo gruppo di lavoro, noi siamo bene disponibili a dare tutto il contributo e tutto ciò che può risultare utile. Per me è già una grande conquista sociale, finalmente essere riuscita a coinvolgere anche gli altri operatori a diffondere il concetto che non è solo un discorso di prostituzione, perché la gente ha la maledetta abitudine di dire: "trans è prostituzione".

La legge regionale del 1989, che prevedeva per il "San Camillo" uno stanziamento di 500 milioni - cifra folle all'epoca -, non è mai stata attuata. Non si sa che fine abbia fatto questo stanziamento a suo tempo, certo oggi non c'è più una lira disponibile.

Dal '91 noi - e quando dico "noi" intendo soprattutto il Primario della Chirurgia plastica e ricostruttiva dell'Ospedale S. Camillo e il titolare dell'insegnamento di Psicofisiologia clinica dell'Università di Roma, insieme al gruppo di lavoro da me coordinato - abbiamo fatto un progetto, che è depositato sulla scrivania dei dirigenti al "San Camillo", dove si sono avvicendati in questi anni vari managers - così si chiamano oggi -. Il progetto è lì e prevede con - all'epoca, nel '91 - 89 milioni - questa è la cifra che si chiedeva - di far funzionare la struttura pubblica del "San Camillo", quindi senza spendere una lira in più.

E' stata, tra l'altro, chiesta la collaborazione ad una serie di dipartimenti, che l'hanno data e qualcuno, come la Psichiatria del "San Camillo", per problemi obiettivi - non credo per cattiveria -, non ha potuto darla, perché hanno detto che avevano il lavoro fin qua sopra. Sto parlando del "San Camillo" che dalla legge della regione Lazio è individuato come il referente regionale per questa problematica, il referente primo visto dalla regione e non si è riusciti ancora, in sei anni, a fare assolutamente nulla, figuratevi se possiamo coinvolgere l'intera rete!

L'Università, in una convenzione con il Dipartimento di Chirurgia plastica, ha fatto una richiesta di 89 milioni per poter vedere in un anno 20 soggetti, a cui veniva fatta diagnosi psichiatrica per poter escludere - perché c'è anche questo da considerare - problematiche di tipo psichiatrico che ci portano in tutt'altro settore che non in quello di cui stiamo parlando, seguiti dal punto di vista psicologico in integrazione con l'attività endocrinologica, chirurgica, medico-legale, ginecologica ed urologica, che, volontariamente, gli operatori di questi reparti, già pagati per fare questo, erano disponibili a fare: siamo alla fine del '95 e non siamo riusciti a fare assolutamente nulla di questo. Piccolo codicillo e chiudo: per lavorare in questo settore dal punto di vista psicologico e psicoterapeutico occorrono alti livelli di formazione specifica. Un'altra cosa da fare, quindi, sarebbe finanziare i corsi di formazione: non si può prendere e fare. Speriamo che l'Assessore alla Sanità della regione Lazio sia disponibile a fare delle cose per cui non c'è problematica di spesa pubblica da mettere come paravento che tenga, perché i costi sono da elemosina.

 

MARIA GRAZIA CECCHINI

Psicoterapeuta

Istituto Gestalt di Firenze

Quello che mi interessava puntualizzare era questo passaggio a cui accennava Anna Ravenna, cioè dal considerare il transessualismo, ex transessualismo, come una malattia al considerarlo come una condizione.

Volevo, però, puntualizzare un'altra cosa: magari il transessualismo fosse stato considerato solo una malattia in tempi passati, quello che è peggio è che nei sistemi a cui le persone di cui parliamo appartengono, spesso viene vissuto come una vergogna, il che ci obbliga ad ampliare ancora di più il discorso.

Se uno, infatti, riconosce di avere un figlio "malato", molto tranquillamente o molto angosciosamente, lo porta a curarsi, invece quello che subisce fin dall'infanzia la persona portatrice di questa condizione è una reazione molto forte e spesso molto violenta: una reazione di rifiuto o una reazione, ancora peggio, di nascondimento, cioè: "Teniamo nascosta questa storia.".

E' abbastanza ovvio per tutti i bambini che hanno un problema o che comunque sentono di vivere qualcosa che non è in armonia con loro, non saperlo esprimere, ma in questo caso il bambino non solo non viene aiutato, a spinto a reprimersi.

Il disagio relativo all'identità di genere si rende molto più esplicito nella pre-adolescenza e nell'adolescenza, ma non perché - come si è creduto anche nel mondo accademico della psicologia e della psichiatria - questo disturbo insorga in questa età; ma perché nella pre-adolescenza si entra nella vita sociale più significativa dove si approfondisce e si fa più complesso il riconoscimento: io e te, io sono io, tu sei tu.

Il primo riconoscimento che mettiamo in atto è: "Io sono femmina.". Mi guardo e dico: "Femmina.", guardo te e dico: "Maschio, hai qualcosa di diverso da me.".

Questo riconoscimento è il primo, anche il più rozzo, se vogliamo, però è il primo ed è molto facilitante nella vita sociale: nella pre-adolescenza permette al ragazzino di essere in compagnia con altri ragazzini oppure alla bambina di cominciare a curare una propria immagine, seguendo anche prototipi molto classici, familiari e culturali.

Il corpo in questa età diventa una sorta di carta di identità con la quale ci presentiamo all'esterno. Nel caso della persona con disturbo dell'identità di genere il corpo non può essere la carta di identità, anzi, il corpo è proprio la parte di sé che rende problematico ogni rapporto con l'esterno.

Il corpo diventa un elemento di disturbo, di filtro, di impossibilità di essere visibili al mondo esterno. Con un corpo che non si riconosce armonico con quello che si vive internamente non ci si può presentare all'altro, non ci si può presentare all'esterno: è come se mancasse la carta di identità.

Questo è il punto focale della sofferenza ed è il punto dove credo che, qui, siamo chiamati a tenere molto d'occhio, proprio in questa sede in cui stiamo svolgendo questo colloquio tra di noi, perché è importante impegnarci a creare un territorio che faciliti, invece, il riconoscimento dell'individuo, l'individuo così come è, con quello che porta, con tutte le sfumature che sono state spiegate precedentemente affinché venga scardinata, questa associazione, tra transessualismo e problema sessuale, con tutto quello che di torbido e di abbastanza morboso ha il termine sessuale.

Se una morbosità c'è, legata al "transessuale", è la morbosità dell'eterosessuale, che nei confronti del transessuale fa tutta una serie di suoi giochi, libero di farli, perché ognuno è libero di vivere la sessualità come gli pare e piace, però non è questo che caratterizza l'identità o il problema delle persone di cui stiamo parlando.

Il grande passo che è stato fatto nel mondo della psicologia è stato quello di mettere in secondo piano ciò che c'è di sessuale in questa condizione di vita. Quello che dobbiamo fare noi, credo, sia proprio cambiare la nostra griglia culturale di lettura rispetto al "transessualismo".

Questo sarebbe un grande passo, non solo rispetto ai "transessuali", ma anche rispetto a noi stessi, perché sarebbe un riconoscere le differenze che ognuno di noi porta e non etichettare come diverso qualcuno che può mettere in crisi la nostra identità.

L'atteggiamento morboso può fare luce su quanto è labile l'identità di tutta l'umanità, su quanto è labile il vissuto dell'identità di tutti noi, su quanto per ognuno di noi non sia per niente facile dire: "Io sono donna, io sono femmina, tu sei uomo o sei maschio".

Finalmente in Italia abbiamo una legge, che prevede per chi ne fa richiesta - perché non è detto che le persone che si definiscono, si riconoscono con un disagio dell'identità di genere abbiano il desiderio di farlo -, la riattribuzione di sesso.

La riattribuzione di sesso, così come prevista dalla legge, permette di sottoporsi alle operazioni chirurgiche necessarie - come poi spiegherà il Prof. Felici - presso le strutture del sistema sanitario nazionale, quindi dalla USL. Precisamente l'ospedale "San Camillo" è stato individuato dalla Provincia come referente, ed è possibile fare tutte queste trasformazioni del corpo per permettere un vissuto più armonico per chi lo desidera, completamente gratis. Un'altra cosa fondamentale che prevede la legge è la riattribuzione anagrafica, cioè sentenze che prevedono il cambio dei documenti.

Ci sono una marea di lacune in questa legge: la prima lacuna sono i tempi lunghissimi, non tanto lunghissimi rispetto alla riattribuzione chirurgica - almeno non mi sembra, perché, volendo, si può procedere abbastanza velocemente, chiaramente con tutte le differenze individuali e gli impegni ospedalieri -, ma proprio per la riattribuzione anagrafica.

Inoltre, mentre per la riattribuzione chirurgica è possibile fare tutto gratis presso un ospedale, iper assistiti, la riattribuzione anagrafica costa parecchi soldi per mettere in moto la procedura legale, l'avvocato, il perito, etc..

Una lacuna grave della legge è che non è chiaro se la riattribuzione anagrafica sia anche il riconoscimento di tutti i titoli che la persona ha acquisito nella precedente identità, ossia se chi si è laureato, o chi ha fatto il corso di meccanografico possa trasferire i titoli nella nuova identità, visto che il cervello rimane quello, non cambia cambiando gli organi genitali.

Questi sono tempi troppo lunghi, non c'è un servizio nazionale chiaro, che dia riferimenti chiari, che renda le cose più facili, se non quello che spontaneamente il MIT o altre organizzazioni hanno messo in piedi per l'assistenza legale a queste persone. Ora speriamo che la CGIL si prenda questo figlio nuovo tra le sue braccia, anche perché i problemi che si presentano nel mondo del lavoro sono enormi.

Stiamo parlando, ovviamente, di persone adulte. Vuol dire che per chi decide la riattribuzione di sesso, finché non finisce la sua trafila giudiziaria e burocratica, bisogna prevedere - questa è la realtà - la disoccupazione, perché nessuno assumerà mai, con tutte le carte in regola, una persona che non si sa chi è legalmente.

Questo è un problema enorme, che richiede provvedimenti urgenti ed assistenza.

Anche per chi non chiede la riattribuzione di sesso c'è un grosso problema, perché la persona si trova a combattere con il proprio desiderio di essere visibile, quindi di mostrarsi con un'immagine armonica con il suo interno e l'impossibilità di farlo, perché se mi chiamo Maria Grazia e vado in giro con la barba, al mio datore di lavoro viene uno scompenso e non solo a lui, ai colleghi, a tutto il contorno, a quelli che ti chiedono i documenti.

E' una problematica, che riguarda anche le forze di Polizia: deve essere fatta informazione e informazione corretta, per cui le autorità competenti, che comunque hanno a che fare con queste persone, è importante che siano istruite adeguatamente, che sappiano con chi veramente hanno a che fare. Non è possibile che se un transessuale beve un bicchiere di whisky in un locale dove, disgraziatamente, succede una cosa, dopo dieci minuti si trova fermato dalla Polizia: perché? Non si capisce per quale motivo. Se sta facendo cose che sono proibite per legge, come per tutti noi, è bene che sia accertato quello che sta facendo, se non lo sta facendo, non se ne vede il motivo.

Un altro ampliamento a cui tengo molto è tutta la parte che riguarda l'assistenza psicologica. Prima avete avuto un chiaro quadro di come sia complesso il problema che ci troviamo ad affrontare, quanti risvolti ha, come c'è bisogno di essere ben guidati ed assistiti per le persone che vogliono essere o guidate verso la trasformazione, quindi verso la riattribuzione di sesso o per le persone che vogliono stare con il loro corpo vivendo comunque in modo armonico e felice.

La legge, purtroppo, non prevede nessuna assistenza sul piano psicologico. Quello che stiamo facendo, sia nell'ambito dell'Università che nell'ambito del "San Camillo", è tutto volontariato. Qualcuno si scandalizza quando si parla del fatto che facciamo le ricerche sui transessuali: noi non facciamo nessuna ricerca "sui" transessuali, non ci interessa, facciamo uno studio che vuol dire conoscere la realtà.

Ci interessa questo aspetto della realtà, più lo conosciamo meglio e più siamo contenti.

Nell'Università facciamo una serie di ricerche sull'identità, e nei problemi dell'identità rientrano tutte le forme di identità, tra cui l'identità di genere e il transessualismo.

Mentre quello che la nostra équipe fa al "San Camillo" è assistere le persone che chiedono la riattribuzione di sesso. In che modo le assistiamo? Soprattutto avendo dei colloqui preliminari, che rendono chiara alla persona la strada che vanno ad intraprendere in tutti i suoi risvolti; chiaramente sul piano medico sono i medici che si occupano di dare tutte le informazioni, spesso anche noi ci assumiamo in parte questo compito lì dove c'è da rassicurare, o da intervenire più su un piano umano. Quello che facciamo è soprattutto dare un sostegno psicologico in tutte le fasi della trasformazione.

Le fasi sono molteplici, come verrete a sapere dopo, non sono semplici, le operazioni chirurgiche che queste persone vanno ad affrontare spesso sono complesse, richiedono tempi lunghi, quindi è molto importante che si abbia un punto di riferimento al quale appoggiarsi per tutta quella che è la connotazione emotiva che c'è intorno a questi avvenimenti medici, clinici.

Un altro tipo di assistenza che diamo è anche il sostenere tutti i disagi che derivano direttamente dai tempi molto lunghi dell'applicazione della legge, di applicazione delle sentenze, per cui spesso le persone si trovano in condizioni veramente difficoltose di rapporto con gli altri.

Un'altra fascia di problemi è relativa alle relazioni familiari: ci prefiggiamo di costruire anche un centro che possa assistere la famiglia nell'accettare la condizione della persona, anzi, nell'aiutarla a ridefinirsi rispetto a questo evento; aiutare la scuola, nel senso di dare informazioni e sostegni affinché sia in grado di accogliere queste persone, che spesso, purtroppo, sono costrette ad interrompere gli studi soprattutto per difficoltà di relazione: non riescono a sostenere le relazioni sociali con i loro coetanei all'interno di un sistema così ristretto e così legato al profitto, all'immagine, al classico comportarsi secondo le regole.

Un altro campo che richiede attenzione è quello delle relazioni sociali e delle relazioni di coppia. La maggioranza delle persone che abbiamo conosciuto in questo nostro lavoro sono persone che hanno avuto o hanno un rapporto di coppia.

Molte hanno rapporti di coppia stabili, che, chiaramente, hanno bisogno di essere sostenuti nel momento in cui c'è un cambiamento così importante nell'immagine di un soggetto della coppia. Non è solo l'immagine che cambia, è come la persona si vive, è come vengono vissuti i rapporti sessuali in seguito a queste modificazioni morfologiche e funzionali.

C'è, insomma, tutto un riadattarsi psicologico, emotivo, affettivo, sessuale ed è molto importante tenerlo molto presente e poter dare un aiuto specialistico su questo. Noi abbiamo visto che molte persone possono utilizzare questo evento della riattribuzione di sesso come una grande opportunità di approfondimento dei propri rapporti e di approfondimento di sé stessi, quindi per questo abbiamo istituito anche un servizio di psicoterapia. Superando il vecchio concetto che la psicoterapia sia destinata a chi è malato, credo che ormai i mass-media ci abbiano abbastanza informati tutti che dallo psicologo non ci si va solo se si danno i pugni al muro con la testa, siamo ben contenti se le persone usufruiscono anche di questo servizio, che è semplicemente l'opportunità di cogliere un evento della vita per andare un po' più a fondo su quello che accade dentro e fuori di noi.

Questo è tutto quello che in parte facciamo e in parte vogliamo fare, molti sono progetti: ad esempio, il sostegno alla famiglie è assolutamente un progetto, ancora non siamo in grado di agire sistematicamente, interveniamo laddove ci si presenta l'occasione urgente.

Ci piacerebbe che tutto questo diventasse, invece, un chiaro protocollo, un servizio da offrire alle persone che si rivolgono a noi. Per questo c'è tutta una serie di problemi burocratici, finanziari, economici - a cui penso accennerà il Prof. Felici -, ma ci piacerebbe che in questo ambito si tenesse conto anche di queste urgenze e poter collaborare insieme per poter riuscire ad avere presto un centro, avere, ad esempio, un numero di telefono e non sparpagliare i nostri numeri di telefono di casa a tutti quanti per poterci reperire.

VERONICA LOMBARDI

Movimento Italiano Transessuali

E' un po' difficile adesso riallacciarsi al discorso, tra psicologia, anatomia e questioni varie. Quello che dicono gli psicologi, secondo me, un po' non risponde a realtà, il fatto che vengono generalizzati i comportamenti da uno a tre anni, a dieci anni, all'adolescenza. La questione è che una transessuale o un transessuale vive la condizione di non essere accettato dalla società ed è proprio per il fatto che, come diceva prima la psicoterapeuta, Maria Grazia Cecchini, c'è questa scabrosità, questa cosa che riguarda sempre il sesso, infatti anche per me la parola transessuale dovrebbe sparire, proprio perché implica già il fatto che riguarda il sesso, quando, invece, noi facciamo un'attribuzione di quello che sentiamo.

In pratica, siamo nate donne con attributi maschili ed è per questo che abbiamo chiesto ed ottenuto con la legge 164 la rettificazione anche anagrafica, ma non abbiamo ottenuto quello che diceva prima la psicoterapeuta: la burocrazia è troppo lunga, gli interventi sono talmente troppo lunghi e problematici a livello psicologico e a livello fisico che non ti permettono di fare delle scelte e intendo sempre delle scelte in campo lavorativo, perché ci dobbiamo riallacciare al discorso per cui non riusciamo a trovare un lavoro.

E' vero, ci sono milioni di disoccupati in tutto il mondo, è un dato di fatto, ma la cosa più sconcertante è questa: per fare un iter di trasformazioni passano anni, ci sono delle lungaggini incredibili oltre ai soldi spesi per gli avvocati, etc.. Tutte queste lungaggini non ti danno la possibilità né di studiare, né di occuparti di un lavoro e imparare un mestiere, perché non è detto che tutti debbano diventare laureati, dottori, scienziati, si potrebbe anche fare un lavoro normale, imparare un mestiere.

E' vero: nessun datore di lavoro accetta chi é in fase di trasformazione, questa, purtroppo, è la realtà. La transessuale o il transessuale ha capacità come tutti gli altri esseri viventi, ha solo quel problema, quello di regolarizzare il suo stato anagrafico, per il resto può affrontare il lavoro, le situazioni come una qualsiasi altra persona. Ecco perché chiediamo l'intervento degli organi costituenti, perché si cambi questa cosa, questo dato di fatto. Ci troviamo di fronte ad un muro, culturalmente, socialmente non veniamo accettate: perché? Perché ci si prostituisce e qui veniamo alla scabrosità. Perché ci si prostituisce? Perché questo iter infernale destinato ad ognuna di noi? Un conto è se una lo fa per scelta: "Oggi ho deciso, mi prostituisco, perché voglio guadagnare più soldi.", ma un altro conto è che io venga obbligata a prostituirmi, perché un intervento mi costa otto milioni, una sentenza di un avvocato mi costa cinquecentomila lire, perché la mia famiglia non mi accetta, perché dove vado a chiedere un qualsiasi tipo di lavoro non me lo danno, se non sotto-pagato, in nero e, comunque sia, sempre sfruttamento e poi troppi soldi, ma veramente tanti, per cui se ci volessero dieci anni per fare una trasformazione normale, ce ne metteresti trenta con un qualsiasi altro lavoro.

Perché questa legge è sbagliata? Proprio perché non c'è assistenza. E' vero questo. Anagraficamente sono a posto, sono in regola, forse anche all'impatto con la società non creo poi così tanti disturbi, però .... c'è sempre un però. Come abbiamo detto prima, ci sono le lungaggini burocratiche. Io, ad esempio, ho il diploma di licenza media che è ancora intestato al vecchio nome e per doverlo andare cambiare ci sono complicazioni, burocrazie, etc.. Quando mi hanno consegnato il documento in regola, avrebbe dovuto essere automatico che anche il diploma di licenza media, anche la laurea, per chi era laureato, dovesse essere adeguato al documento anagrafico. La mia testimonianza era proprio questa.

Ora vi racconto in cinque minuti questa storiella, che, tra l'altro, è molto divertente: cercavo lavoro da un po' di tempo, avevo fatto vari tentativi, "Porta Portese", etc.. Ero sempre molto spigliata, carina, cercavo sempre subito di socializzare, in modo da far capire, perché se lo vengono a sapere, etc.: tutti vari tentativi andati a vuoto. Dicevano: "Perché i clienti non vengono al negozio, etc.". Trovo lavoro in un locale vicino a Latina: che fai? Lo fai, se non vuoi prostituirti, accetti qualsiasi lavoro. In questo locale hanno visto le mie capacità e, insomma, per farla breve, stavo andando benino, mi avevano messo a fare la direttrice e mi pagavano anche bene: quattro giorni a settimana a 150 mila lire a sera. Mi sono detta: "Ho trovato l'America! Non ho più bisogno di prostituirmi.".

Questo locale è gestito da omosessuali, a Latina, per cui per alcuni è già un locale scabroso. Non facevamo niente di male, ci si divertiva, è, tra l'altro, un locale ARCI, nel periodo di Natale facevamo una discoteca, un piano-bar. C'è stata l'irruzione della Polizia, perché si era sparsa la voce che c'era questa Veronica a lavorare nel locale, che non si sapeva bene di che sesso fosse, etc., quindi, dicevo, irruzione della Polizia e foglio di via per tre anni da Latina. In Questura mi hanno chiesto: "Perché tu prima eri un uomo, perché tu prima, etc." ed ho risposto: "No, in realtà sono sempre stata una donna, che discorso è, etc.". Questa è la realtà. Trauma psicologico, perché è un trauma per ognuna di noi che si trovi ad affrontare la realtà: dopo che hai realizzato il tuo desiderio più grande, quello di essere in pace con te stessa, non riesci ad inserirti socialmente, perché, comunque sia, te lo impediscono e, secondo me, non te lo impediscono delle persone, ma la cultura, una cultura sbagliata che dobbiamo modificare, perché abbiamo due gambe, due braccia, un cervello per pensare e per fare come tutti gli altri esseri umani. Non viviamo di lustrini, paillette, sbattute in un angolo di marciapiede in una qualsiasi città del mondo, non siamo noi: noi siamo, prima di tutto, delle persone, uomini, donne, cavalli, cani che siano, siamo delle persone, ragioniamo, parliamo, ci muoviamo, ci comportiamo come delle persone, al di là dell'identità sessuale.

Che altro devo dirvi? Di più scandaloso non c'è, penso che questa sia una cosa proprio scandalosa. Sono stata denunciata da tutto il commissariato di Latina, ma chi mi risarcirà mai di tutte le ripercussioni psicologiche e del trauma che ho subito? Perché veramente per me è stato un trauma: avevo pensato di avere finalmente trovato un lavoro, di essermi inserita. Che lavoro fai? Lavoro in un locale: per una che non si sente la prostituzione sulla pelle è un po' difficile quando uno ti chiede: "Che lavoro fai?", rimani un po' imbarazzata, che cosa gli dici? Ti si legge in faccia che stai dicendo una bugia e lì ecco la necessità dell’inserimento sociale. Per questo abbiamo bisogno, forse un po', ma per le generazioni future, che da quando inizia l'iter fino alla fine ci sia un'assistenza, per poter fare in modo che già dal nucleo familiare, già dalla famiglia, fino all'espletamento con la società ci sia un sostegno, ma in tutte le fasi, primarie e secondarie, perché, ve l'ho detto prima, una è libera di decidere se vuole prostituirsi oppure no, ma se non vuole farlo, non deve essere costretta.

NICKY VENDOLA

Deputato di Rifondazione Comunista

Vi ringrazio dell'invito e vi chiedo scusa se non posso fare la cosa che più mi interessava, ossia quella di ascoltare, perché continua nella giornata di oggi la battaglia sulle pensioni e forse continuerà tutta stanotte, quindi devo rientrare a Montecitorio.

Non per motivi generici considero importante che questa riunione si svolga nella sede della CGIL, per motivi astrattamente solidaristici o perché, forse, si tratta - a proposito del soggetto di cui parliamo - di una porzione, sia pure limitatissima, di potenziale mondo del lavoro, meritevole, quindi, di tutela e di garanzia e per questo la CGIL se ne occupa.

E' importante, però, per un motivo più di fondo, tanto di fondo che non se ne parla mai e soprattutto non ne parla mai la sinistra.

Qual è il motivo di fondo? Io penso - tutto quello che dirò sono opinioni strettamente personali - che ci sia un rapporto fondativo tra l'economia del corpo sociale e l'economia dei corpi individuali. Per questo non è una relazione esterna, di tipo genericamente sociale, ma questa dovrebbe essere una ricerca di fondo: che rapporto c'è tra l'organizzazione del mercato del lavoro, tra l'organizzazione della socialità in tutti i suoi aspetti, della produttività di una società e quella che è l'economia dei corpi individuali?

Su questo piano, purtroppo e per fortuna, ci soccorre soltanto la provocazione e l'elaborazione del Movimento femminista, niente altro. Un genere ha riflettuto, elaborato, anche molto, riuscendo anche a produrre un effetto di rimbalzo sull'altro genere, sul maschile, ha riflettuto sul proprio ruolo, sulla propria identità di genere, sulla propria storia, sul segno strutturale di una negazione plurimillenaria, ma credo che la fatica di scavo archeologica, di ricostruzione archeologica dei ruoli sessuali sia un lavoro tutto davanti a noi, prevalentemente davanti a noi, per lo meno tutto da fare per quanto riguarda il maschile.

Questo è curioso per quanto riguarda il tema della transessualità, che è collocato in una terra di confine tra il maschile e il femminile, vivendo una sorta di pendolarismo permanente tra due ruoli storicamente definiti. Qual è il rischio? E' che ci acconciamo, insieme alle amiche del MIT, a cercare una forma di miglior convivenza, di nuovo galateo. Questo è un rischio che vale per tutti i soggetti "diversi". E' il rischio che sento moltissimo, mi piacerebbe di più parlarne a partire da me per non fare cattiva fenomenologia di altri corpi e di altre persone. Qual è il rischio? E' di rimanere schiacciati da questo macigno che è la storicità del ruolo femminile e da questo altro macigno che è la storicità del ruolo maschile. Terra di confine non significa transessualità o transessualismo o, meglio, transessimo, diciamo: superamento dei ruoli così come si sono configurati. Significa, invece, rischiosamente, introiezione degli uni e degli altri.

Un certo femminile rielaborato alla luce di un'ansia di appartenenza a quel genere e rielaborato con il materiale intellettuale di cui dispongo: non ho altro materiale, ho questo materiale intellettuale, questo materiale emotivo, questo guardaroba di suggestioni, ho Marilyn Monroe, questi mitologemi, di questi mi devo servire per ricostruirmi, per decostruirmi e ricostruirmi. Ho un femminile, che è quello che, fortunatamente, il femminismo ha rotto e messo in discussione, ma, contemporaneamente, ho il maschile, che pure preme, con i suoi codici, con la sua violenza, ma cos'è violento? E' il genere che è violento? Mi piacerebbe fare questa discussione con le amiche e gli amici transessuali e con tutti gli altri: qual è il punto di violenza? Altrimenti è difficile capire cosa dobbiamo fare.

A me chiederete di fare una proposta di legge: facciamo una proposta, a disposizione. Tutti quanti, cioè, saremo dentro i percorsi di un miglior adattamento a questa società.

Non è la mia impostazione, neanche quella che soddisfa minimamente la mia personale diversità, non mi interessa. La mia diversità non chiede un posto a tavola in più alla tavola della normalità, per cui dire: "Preparate una sedia anche per me, ci sono io, integratemi". La mia diversità presume che bisogna spaccare il paradigma della normalità, il punto è quello. La mia diversità è una critica globale della normalità: se non si uccide la normalità, mi possono soltanto dare un passe-partout per consentirmi di acconciarmi a sopravvivere. Di questo credo che bisognerebbe discutere un po' di più nel Movimento gay, del quale faccio parte, ma nel quale non riesco molto a discutere di questo livello del problema, perché il Movimento gay è l'unica porzione di maschile che abbia comunque minimamente provato a rabberciare una qualche elaborazione sul maschile e anche lì, a volte, avendo da scontare il fatto che introiettava il peggio del maschile, tutta la grande mitologia del maschile, paradossalmente causa di ogni epifenomeno di violenza, di negazione degli omosessuali, eppure grandemente introiettato come oscuro oggetto del desiderio. Quello è un problema che merita molta elaborazione. In parte vi è stata questa elaborazione, però, più che altro, sulla spinta di un bisogno di autodifesa, di autotutela.

Da questo punto di vista l'ardimento del pensiero femminista è stato di un altro livello, è stata esattamente una parzialità che cercava di mettere in discussione una universalità e non una parzialità che cercava qualche forma di cooptazione in quella universalità già data, aprioristica, che è l'universalità di un mondo mono-sessuale, così come lo abbiamo conosciuto e subito per duemila anni.

E' questa la discussione che mi interessa, altrimenti anche il superamento degli aspetti più arcaici non so bene cosa possa produrre alla fine. La transessualità non è più nella nostra discussione, per lo meno, considerata una patologia, scherzi di natura. Pensate a come questo abuso della categoria di natura sia stato veicolo non accidentale, ma veicolo sistemico di organizzazione del pensiero e pensate come tutti quanti abbiamo bisogno di ricollocare questa interrogazione critica dei ruoli sessuali dentro l'interrogazione critica della nozione di natura e della nozione di cultura.

Come si definiscono i generi sessuali, se non riscoperchiando questo terribile e inesistente mito che è la natura? Anche perché se uno avesse un approccio, fosse pure biecamente descrittivo nei confronti della natura, quella da intendersi nel senso più superficiale, si accorgerebbe che in natura esistono prevalentemente scherzi, che la natura non ha una serietà primigenia da proporre: la Mantide Religiosa che dopo l'accoppiamento divora il maschio è un tipico scherzo di natura, ma mi pare che la natura si diverta a proporsi soprattutto sub specie di scherzi e non di una seriosità che è soltanto un prodotto culturale e una reinvenzione culturale dell'idea di natura.

Questo è un altro terreno di riflessione che mi interessa moltissimo. Non è più una patologia, non è più uno scherzo di natura: cos'è? E' una soggettività. Di cosa è meritevole? Non si può rispondere a questa domanda, se non si affrontano i problemi che ho sollevato precedentemente, perché può essere meritevole di quella cosa odiosa che si dice anche in CGIL, i diritti di cittadinanza, che è una delle formule che più detesto intellettualmente e moralmente: considero i diritti di cittadinanza una trappola intellettuale. Che cosa sono i diritti di cittadinanza se la città è un'organizzazione materiale di spazi e di tempi, che chiamo la grande barriera architettonica? Il fatto che mi dai il diritto alla possibilità di avere il parcheggio per la macchina del portatore di handicap è un diritto aggiuntivo e il diritto di cittadinanza non è il diritto di spaccare la città e di reinventare i tempi e gli spazi e di dire che la grande barriera architettonica non merita una piazzola di sosta per i portatori di handicap: no, la grande barriera architettonica merita di essere conosciuta, perché si è prodotta, perché la città è stata costruita in base ad un patto fra rendita fondiaria e speculazione edilizia, quindi contava soltanto la quantità di cemento, contava soltanto il produttivismo, non importava niente dei corpi lenti, dei corpi bambini, dei corpi anziani, dei corpi desideranti, interessavano corpi quadrati, veloci, frettolosi, produttivistici e così è la città.

I diritti di cittadinanza - scusatemi questa interlocuzione critica con un pezzo dell'elaborazione della CGIL - che cosa sono? Sono aria fritta che cala sulla testa dei soggetti laddove non si pone il problema dei poteri in rapporto all'organizzazione degli spazi e dei tempi della città e questo riguarda molto i transessuali, ma posso dire tanti altri, non solo i transessuali. Qual è il rapporto che costruirò con i miei amici transessuali? E' un rapporto per cui ogni anno strapperemo un mezzo diritto in più e, naturalmente, tra quel diritto scritto in una legge e quel diritto inveterato nella pratica quotidiana c'è - come ci ha detto Veronica poco fa - un abisso, perché non è quel diritto codificato in astratto che istruisce il vivere quotidiano, ma è esattamente quel maschile, quel femminile, quei codici del maschile e del femminile, quei codici della relazione tra maschile e femminile, quella idea che la sessualità, che poi dà identità agli individui, è un territorio di guerra ed è un territorio nel quale si costruiscono gerarchie di potere, che la sessualità è uno straordinario luogo dell'esercizio del potere, della coercizione di un soggetto nei confronti dell'altro.

Se non cambio questo, il poliziotto non disapplica la legge e si comporta in quella maniera, perché è stronzo: il poliziotto è il terminale di un'organizzazione carsica dell'essere vessatori, della negazione degli altri. Non voglio sfuggire al mio ruolo di parlamentare, perché veramente vi dico: grande disponibilità a tutto, però mi sono stancato di offrire una disponibilità esteriore, essere megafono di questo soggetto e di quest'altro soggetto, etc. senza che possa mai discutere sul fatto: come mai dopo dieci anni di diritti civili in più conquistati poi ti ritrovi con un clima più arretrato di quello di dieci anni fa in tema di corpi, di vita, di relazioni? Che cosa è successo? Perché c'è la regressione? Non basta, allora, la frontiera dei diritti civili, forse il problema è di interrogare, quella che diceva Veronica alla fine, la cultura generale di un'organizzazione sociale come la nostra, di interrogare: esattamente cos'è la sessualità e che rapporto esiste tra quel mondo di fuori, la camera da letto e il mondo di dentro? E come si costruisce identità delle persone a partire da ciò che effettivamente nella grande città offre identità e cioè il lavoro?

Penso che queste domande valga la pena di non buttarle a mare, credo che ogni volta che le si butta a mare ci si prepara alla frizzanteria di splendide battaglie radical-chic, che a volte sono anche molto importanti, però poi non ti spiegano come mai ad ogni tornante un po' complicato ti tocca fare come Penelope e trovarti con la tela disfatta e devi pazientemente ricominciare da capo: Penelope è stanca e forse vale la pena di interrogarsi su questioni più di fondo.

(trascrizione non corretta)

ALDO FELICI

Primario di chirurgia Plastica e Ricostruttiva

Azienda Ospedaliera "Nicolas Green" - Ospedale S. Camillo - Roma

In quanto chirurgo vi illustrerò brevemente le possibilità di questa specialità nei problemi

dei disturbi dell'identità di genere. Vi parlo quindi da artigiano, su aspetti che sono essenzialmente di carattere tecnico.

La fase chirurgica è una tappa importante. In linea di massima è la tappa terminale o quanto meno considerata tale dopo un lungo iter, che porta talora a prendere una decisione in questo senso. L'iter che porta alla esecuzione dell'intervento è lungo, come già affermato da altri relatori, per vari motivi. Da una parte le lungaggini burocratiche richiedono tempi particolarmente lunghi, ma anche per un motivo fondamentale: questa fase richiede una lunga riflessione perchè porta ad una situazione senza ritorno.

Gli interventi chirurgici determinano cambiamenti definitivi ed irreversibili. Il nostro obiettivo deve essere sempre quello di arrivare al convincimento che l'intervento programmato sia necessario e sia comunque la strada migliore per ottenere quello che è il nostro obiettivo: il miglioramento della qualità di vita di queste persone. Questo convincimento non è facile da raggiungere per vari motivi. Prevede un percorso da fare in comune con una serie di specialisti che possano, in qualche modo, farsi carico del problema e che possano, per quanto possibile, stabilire a priori che l'effetto dell'intervento sia veramente benefico, a breve e a lungo termine, dal momento che operiamo persone che, mediamente, hanno un'età compresa tra i 20 e i 30 anni. Gli effetti di questo intervento si protrarranno per tutta la vita. Avremmo necessità di sapere quali sono gli effetti a distanza di venti anni, di trenta, di quaranta o anche di cinquanta anni.

Perché mi sono occupato di questo problema? E' stato accennato prima che esiste una legge dello Stato che prevede la possibilità di attuare questo cambiamento. Esiste una legge regionale, della Regione Lazio, che individua nel "San Camillo" la struttura che dovrebbe farsi carico dell'attuazione della legge, e che, quindi metta le persone in condizione di poter effettuare realmente questo cambiamento.

La legge prevedeva anche tutta una serie di adempimenti e di risorse che, per altro, non sono state mai realizzate, per cui, in qualche modo, abbiamo attuato questo gruppo di lavoro in maniera artigianale e soprattutto perché una serie di colleghi, di specialisti, di psicologi si sono prestati a collaborare in maniera quasi sempre gratuita. Abbiamo creato un centro che ha questa particolarità rispetto ad altri posti in cui viene fatta questa chirurgia: quella di farsi carico complessivamente del problema e di affrontare, quindi, le varie problematiche connesse a questo tipo di condizione.

L'iter prevede l'intervento di psicologi, di endocrinologi, del genetista, del neurologo, del ginecologo, dello psichiatra, etc. La finalità è quella di cercare - ripeto questo, perché è il punto essenziale - di stabilire se l'intervento programmato sarà veramente utile e potrà veramente migliorare la qualità di vita delle persone.

Non mi dilungo sugli aspetti tecnici, perché sono squisitamente problemi specialistici. Gli interventi che vengono effettuati sono tanti e servono a cambiare l'aspetto somatico, l'aspetto esteriore delle persone. Alcuni sono interventi particolarmente delicati, altri meno impegnativi, però ognuno riveste la sua importanza. Vengono effettuati interventi sulle mammelle per ottenere una trasformazione di tipo femminile o di tipo maschile, a seconda della necessità. Questi sono interventi relativamente semplici. Gli interventi più complessi, invece, sono quelli che si effettuano sugli organi genitali. Ci sono, naturalmente, due gruppi di interventi: uno riguarda la conversione uomo-donna e uno la conversione donna-uomo.

Nel primo caso, la conversione uomo-donna, le possibilità chirurgiche sono tante, i risultati sono buoni sia sul piano estetico che sul piano funzionale. Si tratta di interventi che hanno una durata di 4-5 ore, che prevedono l'asportazione degli organi genitali originari, quindi, nel caso specifico, testicoli e pene e la ricostruzione di un organo femminile, in particolare una neo-vagina costruita in genere mediante l'introflessione a dito di guanto della cute del pene in una cavità neo-formata tra il retto e la vescica. I risultati in questo caso, come ho detto, sono buoni sia dal punto di vista estetico, perché la forma è abbastanza simile a quella di un apparato genitale femminile, sia dal punto di vista funzionale, perché questa neo-vagina consente una buona funzionalità anche sessuale. Oggi la chirurgia è abbastanza raffinata, per cui gli obiettivi sono quelli di curare anche alcuni aspetti particolari, come, ad esempio, una buona sensibilità del clitoride, che viene ricostruito con una porzione del glande; di avere una forma che sia sul piano estetico il più simile possibile a quella naturale; di avere una profondità e una dimensione tale da permettere agevolmente l'attività sessuale. A parte quindi alcuni particolari - perché, naturalmente, non siamo in grado di realizzare quello che fa la natura -, tutto sommato, in questo caso la trasformazione dal punto di vista somatico, cioè dal punto di vista della morfologia corporea, è abbastanza semplice ed attuabile.

E' più complesso, invece, l'intervento opposto, cioè la trasformazione da donna a uomo. Parlo sempre per ciò che riguarda il cambiamento degli organi sessuali. Altri interventi sono più semplici; l'intervento sulle mammelle e altri interventi complementari che spesso vengono richiesti sono agevoli e possono aiutare questa trasformazione: viene effettuata l'elettrodepilazione, può essere modificata la forma del naso, può essere eliminato il pomo d'Adamo. Tornando, invece, all'intervento di trasformazione donna-uomo, questo è un intervento particolarmente complesso e i risultati comportano una serie di limitazioni, che devono essere accuratamente valutate prima di intraprendere questa strada.

L'intervento consiste, grosso modo, nell'asportazione degli organi sessuali originari, utero, ovaie e vagina e nella ricostruzione di un pene. L'intervento che prende il nome di falloplastica, consiste nella ricostruzione di un organo che ha, più o meno, la somiglianza di un fallo. Questo viene attuato con un intervento particolarmente complesso e lungo, che, mediamente, dura dalle 10 alle 12 ore; generalmente è un intervento di micro-chirurgia e consiste nel prelevare una parte di tessuto da un'altra zona del corpo e trapiantarlo - si tratta di un vero e proprio trapianto - in regione inguinale, per ricostruire un organo a forma di fallo. Questo può avere, se richiesto, anche una funzione che nel caso specifico dovrebbe essere di duplice specie: urinaria e sessuale e quindi erettile. Questi due ultimi obiettivi sono particolarmente complessi: la ricostruzione dell'uretra, cioè del canale che porta l'urina dal meato originario femminile all'apice dell'organo ricostruito, richiede la costruzione di un canale sottoposto al passaggio dell'urina con tessuti però non idonei a questo scopo. Questo intervento è gravato da una notevole percentuale di complicanze, quali infezioni, fistole, cioè aperture accessorie, oppure stenosi (restringimento). Altrettanto problematica è l'attività sessuale, che viene realizzata rendendo rigido l'organo ricostruito mediante l'impiego di protesi del tipo impiegato abitualmente per l'impotenza, quindi protesi di materiale estraneo, oppure con tessuti propri dell'individuo, quali cartilagine o osso, in genere prelevato da una costola. Anche questo tipo di intervento, tuttavia, è gravato da una percentuale di complicanze non indifferente, perché questi intrusi spesso non vengono tollerati bene, e provocano una usura delle pareti o una specie di rigetto che ne provoca l'espulsione.

La conoscenza di queste problematiche è un punto fondamentale. E' essenziale, cioè, che le persone che intraprendono questa strada sappiano esattamente quali sono le possibilità reali della chirurgia, sappiano esattamente a cosa vanno incontro, sappiano esattamente quali sono le possibilità di successo e quali sono, invece, i rischi che questa chirurgia comporta. E' fondamentale, cioè stabilire la coincidenza tra quelle che sono le aspettative della persona che si sottopone a questo tipo di intervento e quelle che sono le reali possibilità della chirurgia, perché, purtroppo, talora le aspettative sono ben diverse da quello poi è possibile realizzare.

Noi riusciamo a realizzare organi sicuramente non perfetti. E' importante, allora, che la persona che si sottopone a questo tipo di intervento sia cosciente di questo e sappia a cosa va incontro, perché, ovviamente una delusione in questo senso, l'avere ottenuto qualcosa che di molto diverso da quello che la persona aspettava, crea una evidente delusione delle aspettative e in genere disturbi di tipo depressivo, che certe volte possono essere particolarmente gravi. L'importanza, quindi, dell'iter pre-operatorio riguarda, essenzialmente, il raggiungimento di una piena consapevolezza della persona interessata e di chi gli sta vicino.

La chirurgia interviene in queste condizioni estremamente complesse, quale i disordini dell'identità di genere, cercando di alleviare alcuni dei problemi di queste persone, ma ovviamente non risolve la problematica generale. Questa è una problematica che investe corpo e psiche e che dura tutta la vita, la chirurgia può, alcune volte, intervenire, come noi speriamo, migliorando le condizioni di vita delle persone, ma questo non è necessariamente vero e non è sempre vero. E' necessaria una selezione estremamente accurata, questo è il nostro compito fondamentale. Una cosa per la quale ci stiamo battendo e che cercheremo di portare avanti è questa: noi, ripeto, siamo tecnici e abbiamo la necessità di avere dati precisi, soprattutto su un follow-up a lungo termine, su grandi numeri per conoscere i risultati del nostro operato su un grande numero di persone, su un lungo arco di tempo. Dobbiamo sapere, cioè, a distanza di trenta o quaranta anni cosa è avvenuto nelle persone che oggi abbiamo operato. La conclusione è quindi un invito alla grande prudenza nell'affrontare le opzioni chirurgiche per la risoluzione di questi complessi problemi.

 

 

MARCO TAFURI

Movimento Italiano Transessuali

Sono un ragazzo transessuale. Esistiamo anche noi: di solito quando si sente parlare di transessualismo si pensa sempre a donne fatalone e, invece, ci siamo anche noi, "piccoletti", Fino a pochi mesi fa non avrei mai pensato di parlare davanti a delle persone, davanti a dei microfoni. Ho preso questo coraggio, perché credo giusto far conoscere questo problema a tutti. Mi ero fatto un muro davanti a me, non ne parlavo con nessuno, tranne che con qualche amico che aveva lo stesso mio problema, quindi riuscivo a sfogarmi con lui o con le mie sorelle, che sapevano del mio problema, ma non ne ho mai fatto parola con qualcun altro. In seguito ho cominciato a capire che la gente era ostile con me, perché era disinformata, non sapeva cosa voleva dire "transessuale". Ho cominciato a parlarne e mi immaginavo la gente che ce l'aveva contro di me, non so come spiegare, ma più ne parlavo e più vedevo che la gente a cui interessava il discorso riusciva a capirmi, a chi, invece, non interessava non approfondiva più di tanto.

Nel lavoro per noi - almeno da parte nostra, dei ragazzi - ci sono difficoltà come per le transessuali, sempre per via dei documenti, perché all'ultimo la visibilità nostra è meno evidente. Per quanto riguarda il lavoro ho iniziato quando avevo meno di 14 anni, mio padre aveva una frutteria e l'ho sempre aiutato: mi alzavo alle tre di mattina, andavo ai mercati generali, ho fatto il benzinaio, ho fatto per otto anni il pony-express - tutti lavori tipicamente maschili, però lo fanno anche le donne, non era quello che mi preoccupava -, fino a quando lo scorso anno mi è arrivata una chiamata, perché avevo fatto un concorso tre anni fa alla Nettezza Urbana. Ero iscritto al collocamento da undici anni, tutte le volte andavo a timbrare il tesserino e tutte le volte: "E' lei, non è lei, etc." e ogni volta a spiegare: "Sì, sono io.". Basta. E' arrivata questa chiamata, finalmente questo posto di lavoro: mi mancava di fare solo la visita medica, visita medica che da tutti era chiamata "t'arivolto come un pedalino". Avevo paura, perché erano tre mesi che prendevo ormoni, qualcosa ancora si vedeva, cioè potevo confondermi, ma non più di tanto con una donna. Ho avuto paura al momento della visita medica che mi rifiutassero. Ho avuto sempre i soliti problemi, chiamavano Tafuri a nome femminile, rispondevo io, mi dicevano: "C'è un problema, non sei tu, ho chiamato un altro." e rispondevo: "Sono io.", insomma ci voleva del tempo per farglielo capire: stanno ancora parlando da soli!

Passata la visita medica arriva la fatidica chiamata: il 12 luglio dello scorso anno per la prima volta mi sono dovuto presentare alla mia sede di lavoro, alle sei di mattina - e già questo mi disturbava: le sei di mattina è un po' presto per me -. Arrivo in sede convinto che ai miei colleghi di lavoro avrei dovuto dire tutta la verità, non potevo nascondermi, perché documenti alla mano, etc., però non sapevo se dirlo subito: siccome c'erano tre mesi di prova prima di entrare effettivi c'era sempre questa paura in me di perdere questo lavoro. Era proprio una "fissa" che avevo. Primo giorno di lavoro: entro, documenti al femminile, quello a cui consegno il documento mi guarda storto, però fa finta di niente. Per quanto riguarda i miei colleghi: chi mi dava delle paccate di dietro: "Vieni a lavorare con me.", insomma tutti al maschile, perché, logicamente, era quello che si presentava davanti a loro: un ragazzo sbarbatello, però con fisionomia maschile. Il primo giorno mi mandano a lavorare con una mia collega dalle sei alle undici. Questa mi parlava dei suoi problemi ed io non rispondevo, perché pensavo: "Adesso glielo dico". Alle undici, prima che lei andasse via, le ho detto: "Ti devo dire una cosa. Fammi parlare, dopo cinque ore che hai parlato tu: quando arriverai giù, sicuramente ti chiederanno come sono andato". Logicamente, quello di giù sapeva il nome al femminile, quindi avrebbe chiesto: "Come è andata la ragazza?", "Quale ragazza? Ha lavorato con me un "pischello"." Le dico, quindi: "Ti devo dire una cosa: sono un ragazzo transessuale, sto facendo una cura di ormoni, giù troverai un nome al femminile, ho quello. Devo passare delle operazioni, delle cause, insomma ci saranno molte cose prima di arrivare al mio nome maschile.". Lei risponde: "Va bene.". Rientra, tranquillamente stacco, torno a casa e il giorno dopo uno dei capi mi dice che dopo dovevo andare giù: mi ha portato sul reparto di lavoro, però dicendomi: "Dopo ti veniamo a riprendere, perché il "capoccia" ti deve parlare.". Mi sono detto: "Ecco fatto, qui è successo qualcosa". Sto sempre con la paura, etc., dopo due ore mi vengono a prendere e parlo con il "capoccia", il quale mi dice: "Non abbiamo capito bene: ci puoi spiegare questa cosa? Hai cambiato?". Ho risposto: "No, ancora sono in fase, sto aspettando la sentenza prima di farlo, etc.". Fatto sta che questa mia collega aveva capito tutto il contrario: ero un uomo che doveva diventare donna, si era confusa la situazione.

Mano a mano, con ogni collega con cui mi mandavano a lavorare mi comportavo allo stesso modo: prima lo conoscevo bene e poi nello stesso giorno gli dicevo questa cosa, insomma l'ho detto quasi a tutti, cioè ai primi dieci, poi ho individuato quella che, secondo me, lo avrebbe detto a tutti quanti, glielo ho detto, così mi sono risparmiato le altre cinquanta persone. Ho parlato con tutti i colleghi e, con mia meraviglia, mi hanno accettato. C'è chi ogni tanto, quando si ricorda, fa qualche battuta, ma alla battuta rispondo con un'altra battuta e finisce la cosa. Quello che mi ha colpito di più sono stati i vecchietti. Lì parte dai 24 anni - la maggior parte sono tutti quanti giovani - ed arrivano fino al "burino" che ne ha 62 e il "burino" è di quelli tosti come una campana. Anche lui ha saputo di questo, ma non glielo ho detto io, sicuramente glielo ha detto quella lì, magari in modo un po' contorto, ma glielo ha detto. Tutti i giorni sul tavolo c'è scritto nome e cognome, perché bisogna firmare. Un giorno sono andato a lavorare con il "burino" e questo ha chiesto: "Come si chiama?". Uno dei capi, che era appena arrivato, ha guardato e ha detto: "Tafuri Ornella." - mi chiamo Ornella al femminile: che ce volemo fa'? -. Questo "burino" mi comincia a chiamare: "A Lella! Viè qua!": non aveva capito niente, credeva che fosse il mio cognome, infatti ogni tanto diceva: "Che cognome strano che hai!", mi parlava mezzo al femminile e mezzo al maschile, perché questo nome lo confondeva etc., non ci aveva capito niente. Il giorno dopo qualcuno glielo ha spiegato meglio e lui, tranquillamente, adesso dice: "Marco, come stai?". La cosa che ho notato è che fra tutti quanti i colleghi non c'è poi molta amicizia, sono colleghi di lavoro e basta, invece per quanto mi riguarda mi trattano diversamente: mi trattano come un amicone, mi tengono sempre in considerazione. L'altro giorno facevano a botte per venire a lavorare con me: mi sono sentito chissà chi, "Voglio andare a lavorare con Tafuri.", "No, datelo a me.".

Ci sono dei miei colleghi con cui molte volte parliamo di transessualismo, perché sono io che entro nel discorso, non sono mai loro, perché non ci sono mai entrati, qualcuno ne ha sentito parlare per la prima volta con me, qualche altro mi ha detto: "Ho avuto dei rapporti, però lo dico solo a te e basta."., qualcun altro ha avuto amici, etc. Quando ne parlo, mi chiedono: "Come mai sai tutte queste cose?", cioè non ci pensano, glielo devo ricordare. Quando mi chiedono: "Dove sei andato a fare il militare?", li guardo e dico: "Come, il militare?" e mi rispondono: "E' vero, hai ragione.", cioè non ci pensano più di tanto.

Il cambiamento più significativo è avvenuto da settembre in poi, perché prima ero metà e metà, riuscivo a capire chi mi diceva: "Quello sarà maschio? Sarà femmina?", perché non dico che c'era evidenza, però nel viso si vedeva, perché non c'era un filo di barba, c'era un aspetto un po' ambiguo. Da settembre in qua anche se mi presento davanti a mia sorella che mi apre la porta, mi chiede: "Tu chi sei?", carta di identità in mano: "Sono tuo fratello.". Volevo dire della difficoltà di dirlo alle persone che ti sono vicine nella vita. Non ho avuto difficoltà a dirlo ai miei genitori, perché i miei genitori sono venuti a mancare quattro anni fa: a loro non lo avrei mai detto, perché erano di mentalità abbastanza "tosta". Se avessi detto loro una cosa del genere, sicuramente mi avrebbero mandato via da casa, non avrebbero capito, anche perché una volta mia madre lo ha capito e siamo stati fino alle due di notte a strillare, tirava calci, perciò non ne sono mai uscito con loro, nonostante il fatto che sapevano qualcosa, perché erano venuti a sapere qualche mia storiella.

La cosa più difficile è stata dirlo a mia sorella, perché, come ho detto, ho individuato la sorella che lo avrebbe detto a tutti, quindi: "Lo dico a te, lo sanno tutti.". E' stato difficile. Lei abita a Terni, sono andato a Terni e già per telefono le ho detto: "Ti devo dire una cosa." - "Sì, ho capito, dimmela per telefono." - "No, devo venire a dirtela a quattr'occhi". Credevo fosse facile, invece è stata una cosa abbastanza difficile: siamo stati tre ore a parlare e dopo queste tre ore di colloquio, in cui le ho detto tutto, mia sorella ha detto: "Qual è la novità? Che cosa mi dovevi dire?". Già lo sapevano e volevano parlarne con me già da tanto tempo, solo che io evitavo questo discorso, anche perché non sapevo come fare ad arrivare all'operazione - non è facile - oppure a conoscere le persone che l'avevano già fatta. Sapevo che si poteva fare, che esisteva il modo di farlo, solo che nei giornali uscivano articoli tipo: "Operata donna-uomo a Genova, pagato USL." e basta, non si sapeva altro: andavo a Genova e a chi domandavo? A tutti gli ospedali di Genova? Non esisteva proprio! Un giorno ho detto: "Basta, sto parlando della mia vita, devo cambiarla a tutti i costi.", però non sapevo a chi rivolgermi, che cosa fare. La prima cosa che mi è venuta in mente è stato l' "Alibi", una discoteca tipicamente omosessuale, mi sono detto: "Là ci sarà qualcuno che mi aiuta.", anche perché avevo guardato sull'elenco qualsiasi cosa: Arcigay, Trans, non c'era niente. All' "Alibi" dopo tre telefonate mi hanno detto di rivolgermi al "Mario Mieli", che è un Centro culturale omosessuale. Da lì ho conosciuto un ragazzo come me che aveva già fatto l'operazione, a luglio, tre o quattro mesi prima, aveva superato tutte le operazioni e le aveva fatte in Francia. Il primo giorno che l'ho incontrato siamo entrati subito in simpatia e mi si è aperto un portone: volevo volare, non so cosa volevo fare quel giorno, qualsiasi cosa che non avevo fatto in vita mia. Avevo toccato con mano la realtà: questa persona c'era, esisteva ed era lì, davanti a me. Era lui in carne ed ossa.

Da lui ho cominciato a conoscere il sistema di uscirne fuori, sono andato dallo psicologo, ma non più di tanto: ho fatto diciassette sedute, però, in qualche modo, mi ha aiutato. Una cosa che ho dimenticato di dire è questa: erano sei anni che stavo con una ragazza che praticamente di me non sapeva nulla, mi conosceva al maschile: Marco e basta. Per sei anni le ho nascosto tutta quanta la verità. Abbiamo avuto dei rapporti sessuali insieme, ma lei non si è mai accorta di niente: sarà stata anche la sua inesperienza e, modestamente, perché sono un attore. Ho evitato in tutti i modi che lei sapesse il mio numero di telefono: non si sanno le peripezie che ho fatto in sei anni. Quando andavamo in giro, a Piazza di Spagna, lei guardava avanti i negozi e io dietro per vedere se incontravo qualcuno che mi conosceva e mi chiamava: "A Lella!". Dopo essere andato dallo psicologo, anche se per poco, come ho detto, gli amici mi hanno consigliato di dirglielo, anche perché loro stavano con delle ragazze che sapevano che erano transessuali. Dopo sei anni, però, in questa storia era subentrata amicizia tra me e lei, più di tanto non mi andava più di stare con lei, perché era finito questo grande amore. Una sera prendo coraggio, le faccio conoscere questi ragazzi - perché non avevo conosciuto solo lui, ma altri sei o sette: era pieno, praticamente tutti quelli che vedevo dicevano: "Ciao, sono trans." -, le dico: "Patrizia, tutti questi ragazzi che ti ho fatto conoscere ed io abbiamo una cosa in comune". Le avevo già parlato dei transessuali prima, però senza mettermi in mezzo, le dico: "Abbiamo una cosa in comune." - "Qual è?" e insomma le riesco a spiegare che siamo tutti quanti transessuali. Lei mi dice: "Non ti preoccupare, ti capisco, ti voglio bene. Se vuoi invitare i tuoi amici a casa e ti vuoi mettere i miei vestiti, puoi anche metterli.". Le ho detto: "No, aspetta, c'è qualcosa che non va. Non siamo così." - "Non ti preoccupare, se ti fai anche il fidanzatino, sarò la tua fidanzata ufficiale.". Le dico: "Non è cosa per te, te lo spiego domani. Stasera ho perso il coraggio.".

Il giorno dopo glielo spiego di nuovo e ancora non riesce a capirlo, il terzo giorno, carta e penna: le faccio due disegni, le dico: "Patrizia, questo è così. Io sono così. Devo diventare così, perché, etc." ed è riuscita a capirlo, ci sono voluti tre giorni. Mi immaginavo di tutto: lei che mi ammazzava di botte, sei anni presa in giro, ho conosciuto la famiglia, lei ha conosciuto solo il mio cane e basta, perché era l'unico che non mi chiamava, anzi, no, ha conosciuto i miei nipoti. Ho dei nipoti di un'età che va dai 9 anni all'altro giorno, quando ne è nato un altro; mi facevano le domande: "Sei maschio o femmina?", me lo hanno chiesto duecentomila volte quando ancora non era cresciuta la barba. Cercavo di evitare: "E' piccolo, gli facciamo questi discorsi?". Eppure quando l'ho detto a mia sorella già dal giorno dopo questi ragazzini non si sono mai fatti scappare il mio nome al femminile, sempre al maschile e sono anche orgogliosi di me, perché quando entriamo nel bar del paese: "Questo è mio zio: attenzione!", tipo: "Ve famo menà.".

Tornando al discorso di prima, finita la discussione in cui le ho detto la cosa mi immaginavo che questa mi picchiasse, facesse di tutto, strilli a tutto spiano, invece è veramente rimasta scioccata, non connetteva più, le serviva lo psicologo, lo psichiatra, di tutto, però ho notato che si era attaccata ancora di più, proprio troppo. Prendeva il mio problema, ne discutevamo, ma non più di tanto, perché c'era ignoranza da parte loro e un po' di ignoranza anche da parte mia, perché da poco ero entrato nel giro, sentivo parlare di operazioni, ma non le potevo spiegare più di tanto. Finito questo grande amore ho avuto una storia che mi ha proprio buttato a terra: per un mese e mezzo ho visto le stelle e poi è finito anche questo ed è un anno che "sto a secco", metterò gli annunci.

(intervento non corretto)

MASSIMO MARIOTTI

Ufficio Politiche Sociali della Camera del Lavoro di Milano

L'importanza di parlare in una sede come questa dei problemi dei transessuali, che in qualche modo, indirettamente o direttamente, oggi identifichiamo - permettetemi il luogo comune - come categoria sociale, almeno dal punto di vista del raffronto con il mondo del lavoro, sta nell'aspetto non indifferente e non di secondo piano del diritto alla personalità del lavoratore e della lavoratrice. Affermare un principio di questo genere non comporta solo la capacità di estendere e di esprimere maggiori valori da parte di un'organizzazione sindacale nei confronti dei diritti individuali, così come, convenzionalmente, vengono definiti, ma esprime sicuramente un concetto fondamentale - come dicevo poc'anzi - e cioè il diritto nel luogo di lavoro a mantenere la propria personalità e a non vendere o svendere, a seconda delle situazioni e dei ruoli, la propria identità in virtù e in ragione di un rapporto di lavoro.

Dico questo, perché, apparentemente, in una società sempre più complessa e difficile dal punto di vista dell'occupazione - nei giornali e alla tv leggiamo e vediamo tutti -, questi sembrerebbero essere temi tradizionalmente estranei alle battaglie sindacali, in realtà invece, viene richiamato un diritto collettivo e questo diritto collettivo si trova davanti ad una semplice domanda, perché quando parliamo di condizione, in questo caso, visto il tema di oggi, di transessuali e lavoro, ci poniamo una domanda fondamentale che ci porta un po' indietro con i tempi, ma che sicuramente è necessaria e cioé: se è vero o non è vero che oggi il mercato del lavoro - ma, evidentemente, non solo da oggi - è condizionato da discriminazioni. Penso sia abbastanza ovvio affermare senza ombra di dubbio che questo avviene, cioè che il mercato del lavoro, ieri come oggi, è fortemente discriminatorio, oggi a maggior ragione per interventi anche di carattere legislativo, che permettono una maggiore flessibilità, una maggiore discrezionalità - questo da un punto di vista datoriale - di individuare il soggetto a cui dare il posto di lavoro: dobbiamo tornare anche all'aspetto della differenza uomo-donna. Nonostante, cioè la legislazione vigente e le norme che con il tempo si sono introdotte da un punto di vista di legislazione del lavoro abbiamo visto come ancora le donne siano discriminate e che, comunque, il principio di pari opportunità non ha portato effettivamente il risultato che dovrebbe essere conseguente ad una legiferazione che nel corso di questi anni ha avuto le sue evoluzioni e i suoi ragionamenti.

Quando parliamo di discriminazione nei confronti dei transessuali, degli omosessuali e di quante altre - permettetemi, convenzionalmente parlando, di usare questo termine - categorie o aree e fasce sociali deboli il principio di pregiudizio, di ignoranza, quindi di disinformazione, ossia: ciò che ieri o oggi determina un'incapacità di entrare nel mondo del lavoro non è tanto data dalle opportunità legislative, che pure, tutto sommato, ci sono e le abbiamo, perché i principi sulla non discriminazione da un punto di vista di sesso come di religione, di lingua e quant'altro già ci sono e da tempo, ci sono norme anche rispetto al collocamento, che individuano con precisione - almeno da un punto di vista teorico - un principio saldo nel nostro Paese, cioè che nessuno, in teoria, può essere indagato da un punto di vista personale - questo è l'art. 8 dello Statuto dei lavoratori - al fine di ottenere un posto di lavoro. Nonostante le affermazioni del diritto al lavoro, quindi della legislazione vigente, e le norme che hanno contribuito anche ad una certa cultura nel corso di questi anni - e qui rispondo un po' alla domanda che, giustamente, si poneva Nicky Vendola: siamo di fronte a delle leggi, perché torniamo sempre indietro? Questi principi che oggi forse ci paiono abbastanza ovvi, almeno fra persone più attente purtroppo non sono di dominio pubblico nella società. E' proprio il pregiudizio e l'ignoranza a creare il principio di disuguaglianza sul posto di lavoro e qui vi devo trascinare in una scia di pessimismo, perché penso sia inevitabile essere pessimisti anche rispetto alla tematica che andiamo ad individuare, sulla condizione non solo dei transessuali, ma di altre fasce del disagio sociale all'interno dei luoghi di lavoro.

Premessa l'attuale situazione, il mondo del lavoro, purtroppo, penso non ci riservi in un tempo ragionevole grandi spazi di discussione e soprattutto di solidarietà, solidarietà che non solo è difficile nel rapporto con il proprio datore di lavoro, ma anche da ottenere nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici. Troviamo questo atteggiamento anche nei confronti della ricerca del personale, cioè nel momento della selezione dei candidati all'assunzione. Ci troviamo davanti ad un mondo del lavoro dove sono cambiati fortemente i parametri di discussione. Non dimentichiamo infatti che se fino all'altro ieri discutevamo all'interno di un processo legato all'assunzione numerica e al contratto di lavoro a tempo indeterminato, oggi queste condizioni sussistono sempre meno e in alcuni casi sono definitivamente scomparse. Oggi, cioè, sempre più persone si trovano nella condizione di un'occupazione non garantita e c'è sempre più una concorrenza tra lavoro garantito e lavoro non garantito, tra i nuovi lavoratori e lavoratrici che entrano nel mondo del lavoro con quelli che da tanti anni già lavorano, quindi un insieme di competitività e conflittualità che interagisce anche nel modo di convivere nel cosiddetto mondo del lavoro. E' chiaro che tutte queste variabili ci portano a dire che sarà sempre più complicato poter garantire questi diritti. Vale, sicuramente, un po' per tutti, ma a maggior ragione vale per quelle categorie, per quelle realtà sociali che oggi bussano al mercato del lavoro e che grazie ad una qualunque forma di pregiudizio sono incapaci di entrare nel questo mercato. E' evidente che se associamo a queste caratteristiche anche le varie sfaccettature che ha preso il modo di concepire il lavoro oggi, troviamo un altro indicatore di difficoltà nel poter portare questi soggetti nel mondo del lavoro. Mi viene in mente il cosiddetto principio della società dell'immagine, cioè il fatto che sempre più spesso il candidato all'assunzione debba rispondere a requisiti che non sempre sono di carattere professionale, ma che risponda a requisiti del mercato, ossia il fatto di vestirsi bene, il fatto di avere certe qualità piuttosto che altre, il fatto di non avere delle malattie piuttosto che altre, sempre più spesso infatti quelli che si presentano a chiedere occupazione sono soggetti a domande sempre più di carattere personale. Succede nel campo dell’AIDS come succede in tutte le altre condizioni di pregiudizio e di ignoranza, che creano sempre più spesso nuove domande e che pongono sempre più spesso nuovi conflitti, che si risolvono poi in forme di discriminazione, che, come dicevo prima, sono difficili da dimostrare, perché è vero che ci sono le leggi, ma poi è vero che nella pratica non si può mai dimostrare che uno è discriminato.

Rispetto all'immagine - perché anche questo mi sembra un concetto non di poco conto - dicevo che a volte dimostra come addirittura certe situazioni garantiscono, invece, un posto di lavoro a categorie o a situazioni sociali apparentemente discriminate e qui è un po' la risposta al perché ci sono alcuni soggetti - transessuali o non transessuali, omosessuali o non omosessuali - che riescono ad entrare nel mondo del lavoro. Ci sono, cioè, condizioni, quando queste non sono nascoste, dove magari quella determinata caratteristica sociale e quell'immagine di persona fatta proprio così, proprio perché serve per una caratteristica del mercato e proprio perché è più utile, diventa non solo motivo di discriminazione in altri casi, ma diventa un motivo addirittura di privilegio. Il fatto che gli omosessuali, tendenzialmente, siano discriminati sui posti di lavoro, ma che in alcune categorie siano addirittura elemento di privilegio - mi vengono in mente le compagnie aeree piuttosto che altre realtà dell'occupazione - è proprio perché rispondono a questo tipo di condizione, cioè alla condizione di immagine, a questa esasperato richiamo all'immagine come una delle ulteriori condizioni al nuovo mercato del lavoro.

Quando mi sono proposto di intervenire a difesa delle lavoratrici e dei lavoratori transessuali, ho avuto subito estreme difficoltà, perché alla domanda "Quali proposte, in virtù delle leggi già vigenti posso fare?" ho trovato un vuoto e questo anche in virtù delle difficoltà che ho appena esposto. Tra le opportunità, che sono molto poche, ho individuato quella che può essere forse una linea da definirsi a livello nazionale e che possa promuovere un processo di intervento su questo tema, perché è illusorio pensare di difendere il diritto dei transessuali al lavoro da un punto di vista esclusivamente teorico.

Visto che i transessuali hanno difficoltà per ragioni di immagine, pregiudizio ed ignoranza ad entrare nel mondo del lavoro, ci chiediamo come sindacato se attraverso interventi di carattere statale, comunale, come, ad esempio: può accadere ed accade già a Milano per altre realtà del disagio sociale, dessimo l'opportunità di integrare questi soggetti su posti di lavoro pagati dagli enti e non dai datori di lavoro per dimostrare che queste persone sono capaci di lavorare come le altre... Attenzione, non sto parlando di categorie protette. La domanda principale è: non troviamo occupazione, perché viviamo una sorta di pregiudizio, il problema non è andare ad identificare i transessuali come una categoria. Facciamo cadere questo tabù, dimostriamo che un transessuale, una transessuale è in grado di lavorare come gli altri, però dobbiamo dare l'opportunità e se tu, datore di lavoro, se ti do un incentivo, assumi questa persona... non è, ovviamente, mia intenzione creare offesa nei vostri confronti. Siamo nel campo delle ipotesi: se la domanda a cui vogliamo rispondere è: "Esiste un metodo o no per abbattere questo pregiudizio?", possiamo anche benissimo fare la bella figura come sindacato e non solo di dire: "Abbatteremo il pregiudizio facendo della cultura, delle assemblee.", ma ai fini materiali e pratici ci sarà sempre il datore di lavoro che deciderà se ha interesse o meno, con il pregiudizio che probabilmente ha, ad assumere. Il problema è se cerchi una risposta oggi o se la cerchiamo in una società ideale tra cinquanta anni. Io tentavo una soluzione, che, ripeto, sempre nel campo delle ipotesi, potesse avere una verifica sul campo, oggettiva, oggi e non tra cinquanta anni, quando, probabilmente, la maggior parte di questa società e la maggior parte di questi datori di lavoro accetterà anche questo tipo di condizione. La borsa di lavoro è una forma di inserimento che riguarda più soggetti, non è neanche una forma di assistenzialismo: è un inserimento, che è un'altra cosa. (trascrizione non corretta)

LUIGI AGOSTINI

Dipartimento Diritti di Cittadinanza e Politiche dello Stato della CGIL Nazionale

Abbiamo convocato questa riunione oggi con molto impegno, in particolare di Gigliola, perché partiamo in primo luogo dalla necessità di portare ad evidenza, quindi di discutere senza superstizioni - e ci sono molte superstizioni - problemi vari, che fino ad oggi sono rimasti un po' sullo sfondo o assunti come dei dati di fatto. Su ognuno di questi non é esistita per molto tempo alcuna elaborazione nel Sindacato, né una posizione politica. I compagni e le compagne della CGIL mantenevano semplicemente le proprie opinioni o superstizioni, anche individuali. Questo vale per la prostituzione, vale per le tossicodipendenze, vale per una serie di fenomeni che si prendevano con le pinze, si diceva: "Là cosa succede?" - "Vediamo domani cosa succede".

L'idea oggi è quella invece di fare i conti, di guardare questi fatti, di guardarli con molta attenzione e di guardarli con una sensibilità di fondo. Siccome questi sono fenomeni non perfettamente conosciuti - direi, per quanto mi riguarda, una bugia grande come una casa, se vi dicessi che questi fenomeni da parte mia sono anche parzialmente conosciuti -, ho sentito il professore che ha detto delle cose che supponevo, ma molto vagamente-, penso che la questione in primo luogo sia quella di una specie di - usando una parola grossa - innovazione culturale per quanto riguarda la CGIL e per quanto riguarda i lavoratori in genere: forse avremo gli ostacoli più grossi non dico tanto nella CGIL, ma nel mondo del lavoro, perché il mondo del lavoro è una spugna che assorbe il meglio, ma a volte anche il peggio di quello che produce la società.

La seconda cosa potrebbe essere questa: alla fine di questa riunione facciamo un gruppo di lavoro in cui mettiamo giù quella che, in termini sindacalesi, può essere una specie di piattaforma. Vendola dice: "No, lasciate stare le leggi e queste cose.". Io penso, invece, che per quanto riguarda la CGIL sia importante oltre che questa opera di promozione culturale: oggi siamo al 14 luglio, è la presa della Bastiglia, piantiamo un alberello della libertà, come diceva Hegel.

E intanto qualche cosa facciamo, almeno in termini di innovazione. Alla fine, con questa area di lavoro della CGIL, verranno fissati dei punti di iniziativa, che possono essere sia di ordine contrattuale, sia di ordine legislativo - vi sono stati alcuni suggerimenti importanti -, sia per rimuovere degli ostacoli di fondo, sia per facilitare dei percorsi, oltre, ovviamente, a fare questa opera, che sarà di lunga lena, di movimentazione, rimozione, comunque affermazione di un'idea molto più libera ed aggiornata rispetto a quello che passa il convento, rispetto a quello che corre anche all'interno del mondo del lavoro.

Le cose che diceva Mariotti sono anche dei tentativi di dire: cosa facciamo dopo oggi? Perché non vorremmo che oggi ci si vedesse, ci scambiassimo delle opinioni, in termini anche molto simpatici, a partire da Tafuri e basta: dobbiamo dare solidità ed anche occasioni di lavoro produttivo fra di noi, perché si tratta di non lasciare cadere il problema, ma di portarlo avanti, sapendo quello che abbiamo di fronte e darci, quindi, una possibilità di continuità e di spostare anche qualche metro in avanti la linea delle contraddizioni. Dobbiamo fare, quindi, un gruppo di lavoro - chi di voi sarà disponibile - per continuare questa opera di sistemazione ed anche per arrivare ad una specie di vera e propria piattaforma. (trascrizione non corretta)

IVAN CAVICCHi

Ufficio di Coordinamento delle Politiche Sanitarie della CGIL Nazionale

Probabilmente alcuni piccoli scontri che abbiamo avuto durante la discussione ci mettono in condizione di capire un rischio, almeno io lo sento come tale, che é quello del "sindacalista irriducibile": un sindacalista basta che faccia una piattaforma, che "metta su" una cosa ed è felice; il rischio che avverto è quello di tradurre una condizione che non si conosce e che definiamo provvisoriamente "transessuale", in contratti, in norme, questo e quest'altro. Sono stato molto colpito da quello che ha detto Veronica intervenendo quando ha concluso dicendo: "prima di essere, sono una persona".

Questo non è un discorso che possiamo sottovalutare, probabilmente la prima battaglia da fare riguarda la persona. Quindi non è una battaglia settoriale o contrattuale, è un'altra cosa, cioè politica. Qualcuno ha scomodato il termine culturale. Dal momento che siamo un soggetto politico e ci siamo sempre definiti come tale, cioè non un soggetto specializzato in lavoro, in contratti, in norme ecc., ma un soggetto costretto anche a cimentarsi con ben altre dimensioni del problema. Non credo facile tradurre la questione transessuale con un ragionamento lineare e meccanico. Transessuale uguale a... borsa, non borsa, reparto, non reparto ecc.. Prima di questo c'è un problema a monte che è molto, molto più grande e che sento molto.

La positività di questa riunione secondo me è che almeno mi costringe a pensare. Una cosa che ho sentito molto sono le parole usate che avvertivo come inadeguate ad esprimere la complessità di questo contesto. Per esempio mi ha colpito molto tutto lo sforzo che fa la scienza riconosciuta per definire questo problema, questa condizione, come se in questo sforzo definitorio ci fosse quasi un bisogno di giustificazione. La parola "giustificazione" ha la stessa radice di "giustizia" e in molte cose che ho sentito c'è, anche se non direttamente espressa, una grande richiesta di giustizia. Se sono una persona vorrei essere trattato prima come una persona. Questa è la più elementare rivendicazione di giustizia. Non voglio essere trattato come un "transessuale", prima voglio essere trattato come una persona.

Voglio dire che le persone non sono "giustificabili", non si devono giustificare; non c'è bisogno di uno sforzo di giustificazione. La giustizia per la persona è una giustizia che funziona senza giustificare. Giustificare il transessuale è un grandissimo problema. E' un problema che riguarda noi, perché accettare questa logica significa cadere nella logica che ha bisogno di una tutela particolare per un soggetto particolare. Sono esperienze e film già visti. E noi della sinistra con il tempo ci siamo resi conto che poi la tutela che giustifica si è rivelata sbagliata. Pensate al reinserimento degli handicappati (l'accostamento è del tutto involontario), a tutta una serie di soggetti specifici. Pensate a tutto il problema dell’AIDS, legato alle famose classi a rischio, soggetti a rischio. In realtà quando si tenta una "specificazione" del soggetto per cercare una particolare tutela, a volte si commettono errori grossi, cioè rischiosi.

La seconda cosa è questa: una parola che ho sentito (lo dico a Ravenna che ce ne ha parlato) è la parola "identità" e mi colpisce molto questa frase "disturbo dell'identità"; la parola "identità" (non ho avuto il tempo di consultare il vocabolario), mi suggerisce che identità è qualcosa simile a, un concetto di "similarità". In questo piano semantico il discorso di disturbo dell'identità consiste, traducendolo molto grezzamente, in: "sei disturbato perché non sei simile a....."; cioè l'identità viene definita in termini di disturbo come negatività, non è una malattia, però è una negatività, un disturbo è sempre una rottura di scatole, non è mai una cosa gratificante.

Pensavo, allora, rispetto alla cultura delle differenze, rispetto alla cultura delle donne ecc., se non fosse più giusto usare un concetto molto più pertinente, che è quello di riconoscere il valore dell'alterità, cioè non l'essere simile a ...., questo è il diritto di cittadinanza più forte. Contesto le cose che diceva Vendola sulla cittadinanza. La cittadinanza non è la città che diceva lui, non è la barriera architettonica. La cittadinanza è una condizione, un patto sociale e tante altre cose, comunque mi chiedo se, in una società come la nostra, l'alterità come diritto non debba essere riconosciuta quale valore.

Una parola che non è comparsa nel dibattito e che invece mi ha martellato è la parola "bioetica". Ci sono problemi di bioetica, anche nelle discussioni che abbiamo fatto, molto grossi; e Aldo Felici ha illustrato situazioni chirurgiche, dove il confine tra biologia e etica è ancora da definire. Il problema bioetico è molto forte e purtroppo non sempre ben interpretato. Pensate al codice deontologico che ha fatto l'Ordine dei medici, che giudico molto negativamente, perché si confonde la deontologia con l'etica. Cioè al problema rappresentato da una categoria che si arroga il diritto di stabilire per la società alcuni limiti e alcune negatività, quando invece queste sono cose da "patto sociale", da "convenzione dei punti di vista".

Penso che la bioetica ad esempio deve riconoscere il valore dell'alterità, alterità vuol dire esattamente il contrario dell'identità, cioè vuol dire essere "altro da", ma se siamo in una società pluralista (si parla tanto di pluralismo etico), allora dobbiamo lavorare sull'alterità e non sull'identità. Se lavoriamo sull'alterità per quanto attiene alla transessualità sparisce la connotazione del "disturbo". So benissimo che tutto ciò è disturbante, che ci sono dei problemi, che ci sono interventi di varie discipline che bisogna fare.

Quando parlavo di scienza che giustifica, oltre che di una scienza che spiega, pensavo ad una scienza che giustifica se stessa, i suoi limiti. La scienza non è fatta da neutralità: è fatta da emotività, da tagli metodologici, pregiudizi; affrontare un problema significa implicarli in quello che si affronta. Per cui anche lo scienziato, compresa la nostra brava dottoressa Ravenna, in sé nello spiegare giustifica, ci sono dei processi molto complicati in questo.

L'altra cosa sull'identità in sé che volevo affrontare è questo rapporto tra natura e cultura che affrontava Niky Vendola. Sono rimasto impressionato dalle cose che diceva il mio amico Aldo. Lo conosco da tanti anni, siamo amici da tanti anni. So che è bravissimo. Non sono rimasto impressionato dal prodigio chirurgico che lui ci spiegava, ma da questa manipolabilità del corpo, da questa possibilità di decidere il corpo, cioè il corpo non è più, come diceva Freud, un destino biologico. Questo destino può essere cambiato, può essere addirittura deciso, e lo dico consapevolmente sapendo che siamo in piena fase di ingegneria genetica, dove si brevettano le piante, gli animali e dove fra pochi anni, avremo dei problemi alla faccia della medicina preventiva.

Qui c'è una grande sfida. I valori che ci ha spiegato Veronica e le vostre testimonianze pongono il problema di una medicina, delle positività, sapendo che la medicina nasce da una tradizione di lotta contro la negatività, il male, la malattia. Il grande problema della sfida bioetica è che siamo abituati in medicina a gestire delle negatività, per esempio: "ti consento di cambiare il gene malato perché, se non lo cambio, ti verrà questa malattia". Ma ancora non siamo nell'ordine di idee nel quale si possa dire: "in base al diritto dell'alterità che una donna può autodeterminarsi". Cioè abbiamo una cultura del male, non abbiamo una cultura del bene, questo è il punto. Identità e alterità per un transessuale che è donna ma ha il pene e che se lo vuol far tagliare, per essere quello che è cioè una donna e non un ex uomo. Mi viene da pensare all'ultimo "paese normale" di Dalema, e mi chiedevo che cosa volesse dire normale. L'unica risposta è che di normalità ce ne sono tante, guai a noi se adottassimo il normale come misura di riferimento perché allora sarebbe una tragedia.

(trascrizione non corretta)

ROBERTA TATAFIORE

Giornalista e scrittrice

Innanzitutto volevo dire che il disordine di questa riunione è molto bello, perché non solo è un po' diverso dal solito e noto con grandissimo piacere che è passato il tempo e c'è proprio una certa leggerezza acquisita e raggiunta che è molto importante nel modo di parlare di certe cose ecc.; mi ha colpito Veronica, quando all'inizio ha detto: "Io, transessuale, questa parola la vorrei togliere di mezzo, perché c'è la parola sesso".

Io scrivo e nel mio libro mi sono scervellata per usare le parole e gli articoli perché, lo diceva anche Cavicchi prima, il linguaggio è fondamentale nella cultura, nella politica, nelle azioni che si fanno ecc., mi sono trovata persino di fronte al problema che c'è uno sbaglio, usato quasi in tutti i libri, di chiamare il transessuale tutte o tutti e di non usare mai l'articolo di determinazione sessuale finale, quindi la transessuale nel caso di passaggio da uomo a donna, il transessuale ecc.; nel mio libro ho usato questo sistema, mi hanno telefonato delle amiche transessuali dicendomi: "finalmente", eppure è una stupidaggine, una questione di articoli.

Quello che hai detto tu, però, è molto più importante, perché hai detto: "vorrei togliere la parola transessuale perché c'è la parola sesso", anche lì ho fatto tutto un arzigogolo che però mi è venuto certe volte male e certe volte bene, forse devo precisare che il mio libro riguardava la prostituzione, quindi ho preso la transessualità nel versante prostituzione, che non è tutto ovviamente, ho usato delle parole come "neodonna" o "simildonna", ma naturalmente "neodonna" ha una connotazione nata da poco, può essere anche carina, "simildonna" può essere dispregiativo.

Questa delle parole non è una sciocchezza, perché il sesso che c'è dietro la questione transessuale secondo me va assunto, la voglio fare breve, quindi è un po' difficile, va ricondotto a una questione di differenza sessuale e non di identità di genere, cioè identità di genere è una categoria ottima per gli psichiatri, gli psicologi, perché ha fatto fare un passo avanti rispetto ai manuali psichiatrici e via dicendo, ma dal mio punto di vista politico e culturale la nostra società non è solo, come dice lei, malata di genere, quindi di ruoli sessuali sbagliati ecc., è malata di sesso, laddove per sesso intendo la relazione uomini-donne, e non a caso abbiamo proprio visto in teatro, in questa riunione, ed è stato molto bello, questa differenza tra te, passata da uomo a donna, che dici: "vorrei eliminare la parola sesso", e Marco passato da donna a uomo. C'è una maggiore autonomia e una maggiore leggerezza, figure nuove, cioè c'è meno rigidità, questo secondo me, detto in brevissime parole, vuol dire anzitutto che finalmente si apre la strada per una discussione tra donne, per quelle che sono diventate donne, con quelle che lo erano già prima sulla questione della differenza sessuale.

Ho ancora un rimprovero da fare alle mie amiche transessuali, che è quello di chiedere l'aiuto di, secondo me ci sono delle forme da sperimentare, inventare ecc., che sono quelle dell'autorganizzazione; siamo nella sede di un sindacato, un sindacato ha una vecchia e gloriosa tradizione che è quella dei patronati, però usare oggi la parola "patronato" mi fa rabbrividire, perché richiama cose molto antiche; network, cose di questo genere, il sindacato può fare come tutte le istituzioni, dare degli strumenti di autorganizzazione, poi autorganizzazione va invece trovata sul campo dai soggetti. Ultima cosa: sono dell'idea che la legge 164 vada rapidamente cambiata, in questo in pieno accordo con tutte, nel senso di slegare il cambiamento anagrafico da quello dell'operazione, i precedenti europei ci sono, si tratta veramente di volontà politica e basta.

(trascrizione non corretta)

ALESSANDRO CONSOLE

Esperto di aspetti giuridici

In un discorso sul transessualismo non si può prescindere dal considerarlo in rapporto alla società. Qui sorge il problema: la reazione della società al transessualismo é basata su stereotipi e preconcetti. Il discorso che ci accingiamo a fare é di natura giuridica. Il sistema legislativo che regola la società, come vedremo, é direttamente influenzato dai preconcetti consolidati nel tessuto sociale. Come la cultura sociale prevalente rifiuta la figura del transessuale, negandogli, di fatto, dignità, così anche l'apparato legislativo appare decisamente condizionato da tali forme pregiudizievoli.

La "164" é una limpida espressione di questo atteggiamento di rifiuto. Per questo motivo essa é, non a torto, pesantemente criticata: un'analisi oggettiva, non filtrata dai preconcetti, può rendere evidente l'impossibilità di tutelare la categoria dei transessuali per mezzo della "164". Ma auspicare una riforma totale di detta legge ci sembra, al momento, un'aspirazione velleitaria. Sebbene sia utile lavorare per la realizzazione di tale riforma, bisogna considerare che questa direzione di lavoro non può svolgersi in tempi brevi. Perciò riteniamo che questo lavoro vada affiancato da un'attività parallela che si prefigga dei risultati di minore portata, ma più facilmente realizzabili.

Avendo come oggetto della mia tesi di laurea lo studio degli aspetti giuridici del transessualismo, ho avuto modo di leggere alcuni testi che spiegano come il transessualismo sia disciplinato in Italia ed in altri paesi Europei. Da questo confronto sono nate formulazioni di ipotesi legislative che potrebbero trovare attuazione nel nostro Paese. Per rendere oggetto di studio queste ipotesi legislative sarà utile dividere l'argomento in tre punti principali:

A) Critica alla legge n. 164/82

B) Legislazioni vigenti in Europa

C) Possibile avvicinamento della nostra normativa a quella internazionale.

Da un analisi critica della legge n. 164 del 14 aprile 1982 sulle "norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso", sono emerse numerose lacune: alcune, a distanza di tredici anni dalla sua emanazione, avrebbero più di altre urgente bisogno di una modifica. Innanzitutto tale normativa non sembra aver mai risposto alla effettiva realtà del fenomeno, ma ha dimostrato di rivolgersi esclusivamente ad una parte delle persone interessate, cioè quelle che avevano già fatto l'intervento chirurgico o erano ben determinate ad affrontarlo, accontentandosi a regolarizzarne la posizione sociale senza approfondire la conoscenza e senza ampliare la disciplina anche ad altre esigenze non meno legittime. Una volta individuati i limiti soggettivi della legge è facile capire che, esprimendo una natura di tipo sanatorio, l'atteggiamento che emerge non è altro che quello di affrontare una problematica di riconoscimento di un diritto alla libertà individuale, come fosse invece una minaccia per l’ordine pubblico". E' così chiaro che il fine che si propone corrisponde in realtà al reinserimento coatto di ogni forma di cosiddetta "perversione" sessuale all'interno del classico binomio uomo-donna, tendendo così ad esprimere più un indirizzo di tipo curativo-reintegrativo piuttosto che riconoscere ufficialmente la figura del/della transessuale come soggetto di diritti. In tal modo la volontà individuale del transessuale viene calpestata, non essendo compatibile con il concetto di normalità che la legge sembra presupporre; una normalità su cui grava un giudizio di idoneità fondato più su requisiti fisico-sessuali che psichici. Va però sottolineato che il transessuale può non desiderare assolutamente l'intervento chirurgico, ma volere soltanto uno status giuridicamente riconosciuto. Quindi la legge, subordinando quest'ultimo all'effettivo cambiamento fisico, rende l'intervento chirurgico l'unica alternativa ad una morte civile certa. La "164" pone quello che dovrebbe essere l'oggetto di tutela (la volontà e la psiche del transessuale) in una situazione di vaglio obbligato e discrezionale, da parte dell'apparato giudiziario (giudice istruttore, pubblico ministero, consulente tecnico), ai fini di un riconoscimento che è, dal punto di vista della Costituzione stessa, un diritto inviolabile di ogni cittadino.

La situazione attuale della "164" fa sì che questi stessi diritti, in particolare il diritto alla salute (art. 32 Cost.), vengano mutati in obblighi. Quello che è uno strumento per affermare delle libertà individuali come il diritto alla salute diventa una forma di coercizione: si impone al transessuale una "salute" che è, in realtà, nient'altro che un'apparenza esteriore conforme ai canoni correnti, quando il diritto alla salute dovrebbe poter esprimersi anche nel diritto a rifiutare cure obbligatorie.

L'insufficienza e l'inadeguatezza della "164" di fronte alla materia dei diritti del transessuale si ritrova quindi, come è stato più volte puntualizzato dagli studi di Nicola Coco, in questi aspetti:

a - nel fine marcatamente di "ordine pubblico" che si propone;

b - nell'eccessivo potere decisionale del giudice;

c - nella presenza obbligatoria del pubblico ministero;

d - nella lesione della libertà individuale per mezzo di una frustrante perizia psichiatrica, del tutto contrastante la volontà della persona;

e - nel passaggio obbligato, ai fini del riconoscimento di uno status giuridico, dell'intervento chirurgico irreversibile.

In tal modo le applicazioni della legge "164" non consentono di tutelare né la salute fisica e psichica degli interessati, né la volontà di questi. Qualsiasi possibilità di miglioramento della normativa non può non tenere conto di queste gravissime carenze.

B) Con riguardo a questo punto si prenderanno in considerazione legislazioni di alcuni paesi europei, in particolar modo Germania e Olanda. In Germania ad una regolamentazione analoga a quella italiana (Grande soluzione), se ne affianca una alternativa denominata Piccola soluzione, diretta ad ottenere la sola modifica del nome o dei prenomi. In questo caso l'autorità giudiziaria, non ha potere discrezionale, ma si limita a decidere sulla base di una dichiarazione dell'interessato e di perizie rilasciate da due specialisti (Art.4, legge 10 settembre 1980). Anche in Olanda c'è una possibilità analoga, fortificata tra le altre cose da il "progetto transessualità", operante fin dal 1984, e promosso dall'Associazione per l'assistenza sociale "Humanitas". Tale progetto si basa su due punti fondamentali: l'autosostegno dato da ex transessuali, il quale fa sì che l'apporto psicologico sia solo su richiesta, e l'autocoscienza. Incentrando il discorso sul secondo punto, viene sottolineata l'importanza della coscienza, da parte dell'assistito, che alla fine sarà solo lui, o lei, a prendere la decisione definitiva e ad assumersene le conseguenze; questo grazie al fatto che gli viene data la possibilità di vivere realmente, per un periodo delimitato, che non comporti delle modificazioni irreversibili, il ruolo di una persona dell'altro sesso (REA LIFE TEST). Da questa procedura risulta che il 45% degli interessati decide, in diversi momenti della terapia, di abbandonarla perché essa non ha portato gli effetti desiderati.

La Risoluzione del Parlamento Europeo del 12 Sett. 1989, oltre ad invitare gli Stati membri a garantire l’auto-diagnosi (v. art. 2) ed un sostegno psicologico a richiesta dell'interessato, si spinge ancora più avanti, in quanto per la prima volta riconosce al transessuale uno status proprio ed autonomo, sia con il nominarlo formalmente per tale, sia con il dedicargli delle disposizioni che ne presuppongono l'esistenza come singolo e come cittadino, tuttavia il limite di detta soluzione risiede nel fatto che il riconoscimento è relativo al periodo delle cure pre-operatorie, senza riuscire ad arrivare a far riconoscere definitivamente una nuova identità. Non devono essere dimenticati ordinamenti quali quello svedese, quelli di alcuni stati degli U.S.A., del Sud Africa e del Canada che, già dalla prima metà degli anni '70, adottarono per ciò che riguarda le rettificazioni sessuali e anagrafiche, procedimenti amministrativi, evitando il cavilloso coinvolgimento degli organi giudiziari.

C) Dopo quanto detto nella prima parte, emerge come sia forte il controllo che lo Stato "etico" vuole esercitare a fronte di questa realtà e quindi l'enorme difficoltà di riuscire ad aggirarlo. E' per questo che per ora sarebbe auspicabile una politica molto prudente, magari partendo proprio da un allineamento alle legislazioni che ho esaminato relativamente alla sola rettificazione anagrafica. Ciò potrebbe, almeno in quest'ambito, spostare il centro del discorso su una maggiore considerazione del consenso dell'interessato. Una prima ipotesi in questo senso potrebbe essere la modifica, con legge ordinaria, dell’art.454 cod.civ., il quale stabilisce che: "la rettificazione (v. sesso e nome) degli atti dello stato civile si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato, con la quale si ordina all'ufficiale dello stato civile di rettificare un atto esistente nei registri o di ricevere un atto omesso o di rinnovare un atto smarrito o distrutto".

La legge di modifica dovrebbe andare nel senso di estendere alle rettificazioni il regime giuridico stabilito dall’art. 453 cod. civ. per le annotazioni, e cioè che "nessuna annotazione può essere fatta sopra un atto già iscritto nei registri se non è disposta per legge ovvero non è ordinata dall' autorità giudiziaria". In questo modo, avendo un'ulteriore possibilità da seguire, si sfuggirebbe al controllo obbligato, discrezionale, "morale" dell'autorità giudiziaria. Entrando più nel particolare ai fini della sola rettificazione anagrafica (cambio del prenome da un genere all'altro) l'interessato potrebbe proporre domanda ad un comitato/assessorato regionale competente per territorio, il quale disporrebbe, per la durata complessiva di due anni, un controllo obbligatorio in ordine al mantenimento del consenso a tale cambiamento, delegando alla USL di zona il compito di compilare una relazione definitiva che accerti il mantenimento integrale di detto consenso. A tal fine la USL delegata a questa funzione organizzerebbe incontri periodici dell'interessato con personale specialistico nell'ordine di due incontri mensili per l'intero biennio, personale magari preparato senza alcun onere aggiuntivo per la società, ma ridistribuendo più oculatamente somme già stanziate.

Una seconda ipotesi di più basso profilo (perché i precedenti non hanno valore di legge in Italia come nei Paesi di Common Law) potrebbe essere quella di sfruttare la sensibilità di un giudice, relativamente al "necessario" dell’art. l.164/82, per cercare di creare una serie di precedenti che modifichino la giurisprudenza in questo campo.

La realizzazione di queste ipotesi può sembrare utopistica. Ma l'importanza che rivestono queste direzioni di lavoro rende le difficoltà meno aspre. La tutela dei diritti dei transessuali va affrontata sia in considerazione di un risultato pressoché definitivo, come queste ipotesi potrebbero essere, sia in considerazione delle difficoltà attuali. Attraverso incontri, come questo promosso dalla CGIL, é possibile accedere ad un'informazione corretta, che i mass media mancano di dare. Da ciò, ci auguriamo, scaturirà una nuova coscienza collettiva, libera dal pregiudizio, e perciò capace di rispettare le persone per quello che sono. A noi, che ci occupiamo dell'aspetto giuridico di questo problema, spetta l'impegno verso la realizzazione di un'autentica tutela legislativa, più aperta alle esigenze dei singoli.

MARINA TRIO

Transgender International

Mi è piaciuto tanto il discorso sull'alterità, trovo sia un approccio molto più interessante di quello basato sulla normalità. Ho preparato un piccolo intervento di spunto vagamente sociologico: il primo dato di fatto è che, quando ci relazioniamo con le altre persone, incontriamo gente in ascensore piuttosto che sul posto di lavoro o in qualsiasi situazione, la prima cosa che facciamo è di giudicare il nostro consimile per l'aspetto estetico, non è un problema di cattiva coscienza né di malafede, è naturale, ma genera un pregiudizio di immagine: letteralmente un giudizio dato prima ed in base unicamente all'apparenza. Come si evince, non sono discriminate per immagine solo le trans., ma anche per quelli che osano andare a colloqui di lavoro con un paio di jeans un po' sdruciti, la coda o l'orecchino. Io stessa, non conoscendo Niky Vendola, mai avrei pensato che fosse un deputato, proprio il suo orecchino mi ha fatto ricadere nel pregiudizio di immagine: succede proprio a tutti, nessuno escluso; noi associamo ad un aspetto esteriore delle categorie, mettiamo in fila uno con la cravatta ed un probabile giudizio, cioè un gruppo di parole significanti, un gruppo di sentimenti, un gruppo di valutazioni che vengono associate da subito e che non sempre si rivelano corrette. Quando la transessualità è visibile o viene dichiarata da un documento o da un tono di voce, automaticamente scatta il pregiudizio d'immagine che associa al/alla transessuale una serie di "aggettivi" non proprio carini.

Per questo è importante che, prima di una rettifica dei caratteri sessuali vi sia un documento conforme al gender e non al sesso biologico: non per celare ma per dare la possibilità al nostro interlocutore di valutarci correttamente ed eventualmente di formulare un giudizio, sui transessuali, diverso da quello oggi diffuso e consolidato dai media. Anche gli scimpanzé riescono a distinguere per forma e colore e questo vuol dire che come società siamo, per capacità di giudizio immediato, alla stregua degli scimpanzé: il pregiudizio d'immagine può vedersi come predominio della vista sull'intelletto ed anche questo non è carino.

Ci sono alcuni motivi che mi portano a pensare, a dispetto dei medici, che la transessualità non sia una malattia:

primo, non sono d'accordo con l'uso del modello biomedico che riduce la problematica ad una diagnosi e quindi presuppone un malato senza valutare altre possibili interpretazioni derivate da altri modelli;

secondo, i transessuali possono essere visti come sintomo della società: forse il concetto c'era anche fra le parole di Niky Vendola. Analizziamo: l'incidenza media dei transessuali nelle società è abbastanza bassa, si impenna nelle società maschiliste, nelle società latine, dove la differenziazione sessuale ha più importanza, i giudizi si polarizzano ci sono più categorie associate all'essere uomo e all'essere donna, categorie nel senso di gruppetti di parole, giudizi, sentimenti, il giudizio primo è: maschio o femmina?

Abbiamo visto Marco: sono meno soggetti all'ostracismo i transessuali donna-uomo, perchè passano da un sesso dominato a un sesso dominante e, siccome chi giudica è il sesso dominante, allora necessariamente sono motivo di orgoglio, sono molto più accettati così come era molto più accettata Giovanna d'Arco, piuttosto che il marchese D'Eòn, nonostante contendesse gli amanti a M.me Pompadour. Ci sono diverse reazioni alla transessualità nelle varie culture e nei vari paesi. Nel Burma, un paese buddista dell'Asia, veniamo considerati possibili interlocutori degli dei, degni di molto rispetto perché più vicini alla divinità degli altri mortali; nel nord Europa, di cultura tendenzialmente protestante, non esiste quasi ostracismo; gli indiani d'America ci giudicano o possibili sciamani o normalissime squaw, è perfettamente normale che una donna decida di diventare un guerriero o che un uomo decida di diventare una squaw, non gliene potrebbe fregare di meno a nessuno, è una cosa accettata.

Quello che risulta dal breve excursus è che soltanto nei paesi fortemente cattolici e con forte differenziazione sessuale, quindi latini, Brasile, Venezuela, Italia, Spagna, Portogallo ecc., subiamo l'ostracismo e lo subiamo particolarmente nel senso delle trans uomo-donna; c'è un solo caso di società, una tribù primitiva di quelle da documentario, che non prevede differenziazione sessuale, dove non esiste il transessualismo, non so se per un discorso numerico di incidenza, ma sono convinta che in una società che non si differenzia sessualmente non può esistere il transessualismo, nel senso che il proprio personale mix di maschile e femminile non crea nessun disagio sociale, non crea nessuno scontro: rimango convinta che è la società il malato affetto da "differenziazione sessuale cronica".

Il sindacato dovrebbe promuovere il nostro ingresso nel mondo del lavoro, prima per contribuire alla creazione di una società evoluta, senza pregiudizi, poi... per un discorso di pari opportunità: il nostro problema non è "rimanere" nei posti di lavoro perché una volta che abbiamo avuto l'occasione di essere valutate come lavoratori o come lavoratrici, se riusciamo a rimanerci va bene, se non riusciamo a rimanerci, saremo uguali nella nostra diversità e nella soggettiva diversità a tutti gli altri esseri umani, fuori, a casa. Il problema è che non riusciamo ad avvicinarci ai luoghi di lavoro, che non abbiamo opportunità. Non penso che la politica della normalizzazione vada bene, né tanto meno quella dell'assistenzialismo che, per di più sarebbe una politica fallimentare dal punto di vista strettamente strategico: siamo una minoranza e per di più poco rilevante statisticamente, quindi andarsi a prendere tutta questa pena per proteggere un'incidenza di una persona su 100.000 o su 50.000 mi sembra una cosa ridicola. L'obiettivo, secondo me, deve essere un altro. Avere un contatto con noi in qualche modo mette "in discussione", crea dei dubbi, scardina delle certezze, quando i transessuali potranno andare a lavorare vi sarà lo stimolo per noi a non essere fuori, quindi di diventare più normali, a stare sempre fuori, a stare sempre escluse dalla società si diventa un po' strane, è pure legittimo: stare chiusa in casa 8 ore a fare la prostituta o dovere passare un'ora ad acconciarsi per finire sul marciapiede, avere l'incubo dell'ormone, dell'endocrinologo, della plastica, qualcosa ti cambia, soprattutto se in tutto questo tempo sei fuori dal mondo normale.

Una certa nostra stranezza esiste, ma non è determinata da un fatto congenito e tanto meno di patologico, il problema è che stai fuori dalla società e nel momento in cui transiti da un'identità, da un'apparenza a un'altra apparenza, personalmente penso alla rettifica dei caratteri sessuali come un optional, nel momento in cui fai questo passaggio rimani fuori dal mondo, quindi rimani fuori da tutto ciò che è il mondo del lavoro, la sanità, quella comune, normale ecc., rimani fuori per uno, due o tre anni. Se riusciamo a entrare nel mondo del lavoro, possiamo forse stimolare le persone con cui lavoriamo nel contatto anche verso una loro ricerca di identità, un loro porsi delle domande e forse passare tutti a diverse categorie di giudizio, finalmente lontane dalla dinamica dello scimpanzé: che come ti vedo già so quello che sei, costretti a lavorare insieme al "come ti vedo ....", forse può seguire qualche cosa e scopri che una persona può avere delle attitudini professionali, che magari quello con la cravatta è uno sfaticato, puoi scoprire mille altre cose che sono diverse dal pregiudizio di immagine. Diciamo che chi é escluso si auto-ghettizza: una volta escluse ci si trasmette all'interno della tribù e del gruppo il "dove è concesso vivere" e lì scatta il meccanismo dell'autodifesa, comunque la metti, nel momento in cui stai fuori e ti organizzi per stare fuori, in qualche modo ti auto-ghettizzi: misuri la tua distanza e l'accetti, anche se questo non è carino, però è un po' la realtà; di tutte le categorie out che si organizzano in un "fuori dalla società", ma sempre secondo le identiche regole e strutture, secondo quei meccanismi e quelle regole che escludono qualcuno ma cementano la società di chi sta dentro, e allo stesso modo cementano la società di chi sta fuori ed escludono i normali, questo non fa altro che aumentare enormemente le distanze.

Entrare nei luoghi di lavoro vuol dire dare una possibilità di dialogo, di interazione, mettersi insieme per rompere quel circolo vizioso, che nel caso delle trans uomo-donna ci tiene fuori e ci relega nel mondo della prostituzione, nel caso degli ex tossicodipendenti li manda a spacciare hascisc ecc., nel senso di tutti i gruppi che sono stati emarginati, il fatto di rientrare in qualche modo è da un lato stimolante, da un altro lato chiude questo turn over di cose che ti fa stare sempre lì, dentro o fuori, ma sempre tutti affetti da pregiudizi, da ottusità che dividono e rendono impossibile la coscienza del sé attraverso gli altri che sono o uguali o intoccabili. L'obiettivo finale non è più neanche quello di tutelare i transessuali, è semplicemente di costruire la società in un modo più civile, un po' di più di quello scimpanzé che dicevo prima. La dicotomia maschile e femminile c'è, ma c'è anche un altro problema, il transessuale si pone un problema di identità e di sessualità, "chi sono?" è una domanda della nostra società che nessuno si vuol più porre. L'essere testimoni di un interrogativo grande, quando ci andiamo a relazionare con altri, fa sì che questi debbano per forza porsi delle domande o almeno svicolare con disagio, la gente questo interrogativo non lo vive, sta tranquilla nel suo ufficio: ma perché si deve mettere in discussione? Quella che si pone è una problematica di fondo dell'essere umano, l'identità, la relazione sessuale, in quale metà del cielo deve collocarsi, ecc., sono cose che gestiamo tutti noi personalmente nel nostro privato molto male e su cui non amiamo interrogarci.

CLAUDIO VEDOVATI

Centro della Riforma dello Stato

Avevo accumulato tante cose, poi l'intervento di Marina Trio mi ha in qualche modo sollecitato a prendere la parola, ho qualche dubbio, soprattutto quando sul versante della battaglia culturale si parla di combattere l'ignoranza e il pregiudizio e implicitamente si invoca un atteggiamento più liberale, perché la sensazione che ho è che c'è qualcosa di più grande e di molto più complesso con cui confliggere, che non ignoranza e pregiudizio.

Vedo, infatti, più che altro una resistenza piena di consapevolezza e non di ignoranza, cioè chi è che non accetta una condizione esistenziale, la chiamo ora trans, come quella della o del trans? A mio avviso la resistenza consapevole è quella di - uso un linguaggio un po' da pensiero della differenza delle donne - un grande ordine simbolico sessuato maschile, che fa resistenza a prendere atto di un tipo di condizione, di soggettività sessuata che è scandalosa rispetto al proprio modo di pensare se stesso e dunque la realtà, cioè vedo, da quello che oggi ho sentito qui o da altre esperienze che ho fatto, che l'esperienza del transessualismo è eversiva, perché mostra tutta quanta l'arbitrarietà che ci può essere nel rapporto tra corpo biologico, soggettività, scelta e libertà.

Dicevo, però, che ho un mio dissenso e una preoccupazione rispetto ad alcune cose che dite, perché quando parlo di soggettività, parlo di soggettività che è prodotta da un corpo sessuato, non di una soggettività astratta di un'astratta persona che non ha sesso, ma di una soggettività che sceglie proprio di non rimuovere il corpo, tanto più nell'esperienza della transessualità, in cui la vicenda del corpo è così importante, tanto che c'è il problema del passaggio anche fisico e dell'operazione, dunque c'è una consapevolezza. Ho usato una parola sbagliata, sono d'accordo sul criticare la parola passaggio, in realtà l'ho mutuata dal trans, quello che mi preoccupa un po', lo capisco, è un bisogno di astrazione, cioè di fare coincidere soggettività e persona umana astratta dal rapporto con la sua determinazione non dico sessuale, dico sessuata, non quindi con un determinismo biologico, il corpo maschile o il corpo femminile, ma con una scelta sessuata, la scelta di appartenere, di pensare se stesso, o se stessi o se stesse in un modo o in un altro modo, in un sesso o in un altro sesso, o di giocare addirittura con queste cose.

Ho la sensazione che questo bisogno di astrattezza, di tirarsi fuori rientri nel meccanismo di cercare di stare dentro una normalità, in un mondo che rifiuta di tematizzare la differenza sessuale, nel senso che pensa se stesso tutto in termini astratti, ma dentro un ordine simbolico sessuato maschile, la via di fuga sia quella di non porsi all'altro come soggetto che fa scandalo proprio per il modo diverso in cui pensa la sessualità, ma viceversa tentando di rimuovere questa cosa; ho sentito questo rischio ad esempio quando si parlava di sessualità come cosa torbida. Voglio dire che mi è impossibile pensare a me stesso al di fuori della mia identità sessuata, ma che non ha niente a che fare con l'esercizio del mio corpo e basta, ma con la percezione di me, io non posso pensare me stesso al di fuori di quello che sono, tutto qui, poi il sesso inteso a luci rosse, oppure come sentimenti, affettività fra due persone, non è questo, ma è impossibile per ogni individuo pensare se stessi al di fuori della propria identità sessuata, nel senso che ci si pensa come corpi che sono sessuati.

Volevo concludere in qualche modo facendo un appello a mettere nella discussione anche sulla transessualità, e lo dico anche rispetto al sindacato, il fatto che se agli uomini eterosessuali fa comodo rimuovere la propria parzialità, fa comodo rimuovere la propria identità sessuata, fa comodo coprire tutto questo di silenzi, di paure e così via, non fa comodo a voi accettare questo tipo di rimozione, bisogna far sì che la discussione venga portata anche su questo terreno, cioè su come i maschi eterosessuali pensano se stessi, stanno al mondo e producono mondo, perché quel mondo che producono in cui vi trovate male è questo mondo qui, è il mondo prodotto dal maschio eterosessuale, la discriminazione sul lavoro è prodotta da quel mondo lì, il pregiudizio è prodotto da quel mondo lì.

Volevo concludere con questo e dirmi d'accordo con quello che diceva Marina Trio, cioè che il vero problema culturale è che ho l'impressione che i problemi vostri o i nostri oppure quelli di molte altre soggettività, non saranno mai risolti finché l'eterosessuale maschio non capisce che ha un'occasione per mettersi in discussione, che è un'occasione positiva di riscoperta di sé, di ridefinizione della propria parzialità a partire da cose diverse, dall'assunzione di responsabilità e, finché non fa questa operazione di rimessa in discussione, che diventa anche un altro ordine sociale, non c'è niente da fare, ci sarà sempre resistenza.

Badate che anche qui c'è resistenza, il fatto che in queste situazioni, lo dico spesso, o in altre iniziative poi parlino i soggetti interessati e intorno a loro si creano competenze che camuffano la loro identità sessuata, ma parlano da medici, da giuristi, da politici, da sindacalisti e non parlano mai da uomini e da donne, è già qualcosa che vi viene sottratto, vi viene sottratta una parzialità di cui avete bisogno, perché questa parzialità, se è assunta, è responsabilità e dialogo, è accettare di essere messi in discussione proprio da una condizione che secondo me è paradigmatica della libertà che ci può essere nel rapporto fra identità e soggettività anche rispetto alla vicenda sessuale; il problema è proprio che voi mettete il dito sulla piaga, non su una delle tante piaghe, sulla piaga, fate questo e non potete fare finta di non vederlo.

(trascrizione non corretta)

SOUL MEGHNAGI

Istituto per la Formazione Sindacale

Vorrei partire da quest'ultima questione: l'immagine che mi veniva in mente, mentre tu parlavi, è quella di una casa che è già occupata da alcune persone, ci sono altre persone che dicono: "guarda che questa casa che tu occupi è brutta, però io ci voglio entrare", allora lì la cosa non è tanto semplice, perché quelli che stanno dentro non sono tanto contenti di cambiarla e quello che sta fuori, mentre chiede di entrare, dice: "sì, però te la voglio cambiare perché tu non mi piaci, non mi stai bene, la normalità è una cosa più complicata di quella che dici tu".

Un'altra cosa che mi viene in mente, qui si sono mescolati fatti soggettivi e fatti oggettivi: io sono nato in un altro paese, sono arrivato in Italia come rifugiato, molte cose dell'Italia non mi piacevano, ciononostante dovevo acquistare quel famoso diritto di cittadinanza per non essere espulso dall'Italia, per cui nel '68 facevo la manifestazione, quando mi sembrava che la polizia stesse per caricare scappavo via, perché rischiavo l'espulsione; la situazione ha questo margine di ambiguità incredibile, questo è un dato incontestabile di questa situazione.

A me sembra che ci sia una difficoltà estrema di stabilire che fare e che il sindacato, se si vuole impegnare su questo terreno, ha davanti a sé una difficoltà impressionante, perché il problema è complicatissimo, tra l'altro è un problema complicato perché non è che il sindacato è un fatto mitico, un sindacato è fatto di quelle persone che sono autori e autrici di pregiudizio, di discriminazione, a partire da chi sta in questo palazzo a tutti i lavoratori che esprimono elementi di resistenza, la complicazione di questa ambiguità di base è una complicazione ricca, non un fatto da accantonare, quindi mi pare che ci sia un problema di confronto culturale complesso, per questo dico che la formazione sindacale è un pezzetto, ma in realtà è una dimensione di politica culturale.

Dall'altro lato c'è una condizione di persone che chiedono di partecipare a una riflessione su come modificare una società che anche al sindacato piace e che hanno un elemento di ricchezza, a cui non avevo pensato fino a quando non ho seguito questo dibattito, che è impressionante se ci rifletto, non lo so se uno l'ha vissuto più drammaticamente o meno drammaticamente questa sua condizione, certo è che l'ha dovuto dire a sua madre, a suo padre, ai suoi fratelli, alle sue sorelle, alla sua famiglia, agli amici. Stavo dicendo poco fa ad Anna che in realtà, se fossi un imprenditore, assumerei un transessuale, perché uno che ha avuto il coraggio a un certo punto della sua vita, avendo stabilito dei rapporti in cui era identificato per una persona fatta in un certo modo, che va dall'altra e gli dice: "tu mi hai conosciuto così e mi hai immaginato così, ma in realtà io intanto ho fatto già il lavoro di mettermi d'accordo come me stesso che non sono quello che forse fino a un certo punto io stesso avevo pensato di me, poi te lo dico mettendo a repentaglio un rapporto affettivo che ho con te", perché non ho la più pallida idea, ma posso immaginare che non tutti i padri e le madri abbiano reagito allo stesso modo e che la cosa sia stata così semplice, che ha quindi deciso con un coraggio impressionante di mettere in discussione rapporti affettivi consolidati, per affermare una propria percezione di sé, lasciamo perdere identità, ha deciso di essere se stesso a prescindere dall'ostilità che questo determinava.

Qui c'è un dato di fatto e nello stesso tempo questo coraggio, questa forza, questa sofferenza e capacità di sopportazione, alcuni meno, alcuni di più, ma mi pare di avere capito che la cosa non è così lineare, anche se forse per qualcuno lo è stata, comunque è una persona che da un lato offre questa ricchezza, dall'altro offre questa forza, ma dall'altro ancora offre la difficoltà di gestione dell'impatto con una dimensione culturale e, se volete, anche caratteriale che propone con questa coerenza un'affermazione di identità; nel sindacato non siamo abituati a tutto questo, c'è un'omogeneità culturale talmente consolidata, la classe operaia è un monolito, se volete fatto di maschi prevalentemente, con fatica sta accettando che ha anche due sessi, figuriamoci se gli complichi la vita dicendogli che i sessi non sono solo due, quando sta ancora faticando ad accettare che sono due.

Credo che bisogna approfondire la questione su due piani abbastanza diversi: uno di enorme durata, speriamo non lunghissima, ma che è quella di affrontare la dimensione culturale all'interno del sindacato, poi perché il sindacato sia in grado di gestirla anche con altri che non ne fanno parte; altro è, comincerei per la verità da questo secondo aspetto, affrontare alcuni problemi molto specifici che oggi sono stati menzionati, cioè siamo di fronte a un problema su cui intanto gli studiosi devono mettersi d'accordo, intanto le operazioni, diciamo la parte più clinica della questione è ancora a livello di avvio, quindi è una questione complicata in cui, ci diceva Anna, quali sono le dimensioni del finanziamento, della ricerca e dell'approfondimento di questo.

Io comincerei a mettere sul tappeto tutta una serie di questioni che forse sono in parte estranee alla dimensione contrattuale in senso stretto, e vedere di stabilire una gerarchia, da quella della rapidità del riconoscimento dei titoli di studio che, per parlare di una cosa che conosco, che mi sembra di una stupidità incredibile. Basterebbe solamente apportare una modifica, visto che la legge dice che dove dice "o" si intende e si legge "a" e dove dice "maschile" si legge e si intende "femminile", adesso abbiamo delle ragazze che hanno delle lauree al maschile e naturalmente anche lì è stato dato un taglio alla possibilità di inserirsi nel sociale, perché se mi chiamo Pasquale e sono laureata in giurisprudenza, oppure sono un architetto, domani viene un possibile cliente e dice: "voglio parlare con l'avvocato", cosa gli dico? Non sono più avvocato, perché una volta ho cambiato ..... Volevo distinguere la questione almeno in due parti, ma forse in tre, nel senso che già se si costituisce, sono d'accordo con Agostini, un gruppo di lavoro in cui c'è chi è portatore diretto dell'esperienza e c'è chi ha un'esperienza di tipo contrattuale, sia pure su altri terreni, in cui si cominci a elencare, perché mi pare che siano già individuati, alcuni problemi apparentemente banali, ma che sembrano essere un elemento incredibile, ho menzionato la scuola, ma posso immaginare cosa succede per un conto corrente, posso immaginare cosa succede per una proprietà, cosa succede sul passaporto. Come prima cosa, se si costituisce un gruppo, comincerei a fare un elenco di questi problemi che oggi sono stati indicati, perché probabilmente alcuni hanno una soluzione normativa, altri hanno forse una soluzione senza bisogno neanche della modifica della legge. Se la ricchezza di questa giornata la si traduce, come è stato proposto, in un gruppo di lavoro, una cosa che comincerei a fare è elencare tutti questi problemi che sono di natura diversissima, da quelli che ha menzionato lei, a quelli che dici tu, a quelli che sono della ricerca o delle modalità di intervento, e si tratta di capire che cosa è contrattabile, perché ci sono tutte le premesse o di legge o di forza contrattuale per realizzarli, e che cosa invece va attivato, perché le cifre che lei ha indicato per sostenere alcuni aspetti di ricerca sono ridicole, da quelle che sono questioni di maggiore complicazione.

Per esempio, questa dell'occupazione è una delle cose più complicate, è inutile nasconderci dietro un dito, il momento è tale per cui i datori di lavoro, da un lato la flessibilità, dall'altro la chiamata..., dall'altro il pregiudizio e il conto è presto fatto, per cui lì si tratta di individuare delle strade che probabilmente sono quelle che sono state suggerite, sono abbastanza convinto che l'elemento di conoscenza diretta e delle condizioni di valutazione e possibilità sia un dato indispensabile, però poi le formule rischiano di essere quelle che costruiscono già nell'avvio una condizione di disagio e di rifiuto da parte di chi dovrebbe accettarle.

Mi viene in mente una cosa del tutto diversa, noi abbiamo fatto un intervento di formazione per lavoratori in mobilità nel sud, lì una delle cose più grosse da rimuovere è stato il fatto che, se uno è stato mandato via da un'azienda, comunque qualche cosa che non andava ce l'aveva e che quindi era meglio non prenderlo; lì la cosa che è stata fatta eccezionalmente è stata quella di costituire dei periodi di stage aziendale come fatto che in qualche caso, dove c'erano le condizioni oggettive, ha favorito il recupero di qualcuno, però sono formule in cui ancora non sappiamo bene come muoverci, questa è la realtà dei fatti, cioè ci si è mossi per un lavoro a tempo pieno, garantito e quant'altro, una situazione di flessibilità in cui le modalità di incontro sono complicate.

Credo, comunque, che oggi intanto CI sia una ricchezza di informazioni che consente di andare più a fondo, se poi si costituisce un gruppo si può vedere quali problemi hanno una soluzione relativamente rapida e quali invece sono più complicati, la dimensione culturale è sicuramente la più complicata, cioè non c'è dubbio che siamo su una questione, come qualcuno ha detto, inquietante, qualcuno ha usato questo termine e io mi ci sono ritrovato, non lo so per chi ne è direttamente coinvolto, ma è inutile negare che lo sia per chi non è direttamente coinvolto, questo è il dato sostanziale, poi gli psicologi possono aiutarci a capire quali sono gli elementi più profondi per cui un evento di transessualità mette in qualche modo in agitazione chi non lo è, io credo di poterlo sostenere con tranquillità, non fosse altro per l'incertezza con cui ho accolto l'invito di Gigliola, "non ne so niente", dopodiché forse, andando più a fondo, in qualche modo avevo io stesso qualche difficoltà a imbarcarmi in una discussione tutto sommato non del tutto asettica rispetto a quello che uno è.

(trascrizione non corretta)

 

RITA FORNARO

Assessorato Sanità del Comune di Roma

Sono qui in qualità di Dirigente del settore della Medicina Sociale. L’Assessore Cosentino Vi augura buon lavoro, spera che i rapporti con l'Assessorato in futuro siano migliori di quanto non siano stati fino ad oggi e non c'è dubbio che per quanto riguarda il nostro settore - con me ci sono la Dott.ssa Angiomi, il Dott. Mantieni, la Dott.ssa Fratini e sono fra gli esponenti di punta come sensibilità ed intelligenza - auspico che avremo in futuro un rapporto vero, un rapporto stretto, anche rispetto alle richieste che farete.

Per quanto riguarda i problemi che sono stati posti dal punto di vista dell'organizzazione sanitaria - non ho ascoltato tutto, ma mi hanno colpito - mi pare che qualcuno di voi abbia chiesto, la creazione di servizi che erano previsti in una legge regionale. Non c'è dubbio - non voglio essere impopolare, però occorre dire la verità e occorre trovare anche le soluzione per superare i momenti difficili -, credo sappiate che viviamo un momento estremamente difficile in Italia per quanto riguarda la sanità e la previdenza. E' di questi momenti l'approvazione di quella vergogna - per me, è un'opinione personale, che esprimo non come Assessore, ma come Rita Fornaro - della contro riforma sulle pensioni con la clausola di salvaguardia, voglio dire che non ce l'ha neanche il Giappone. E', quindi, un momento molto difficile per tutto quanto riguarda la tutela sociale dei lavoratori, delle classi meno abbienti. Non c'è dubbio che è un momento molto difficile anche per la sanità. Ci saranno senz'altro dei tentativi per tagliare ancora di più tutti i fondi destinati alla sanità, su questo non c'è dubbio. Sapete che la regione Lazio è una delle più indebitate d'Italia: non so quanti miliardi di debiti abbiamo, migliaia di miliardi, si parla di 3 o 4 mila, già come debito storico, quindi la difficoltà ad intervenire per creare dei servizi nuovi che richiedono organici, richiedono professionalità, richiedono strumentazioni - il Prof. Felici lo sa meglio di me, io lo so come burocrate -. Queste cose, però, credo possano essere superate in positivo.

Ascoltando riflettevo su alcune cose su cui ci si può verificare: siamo abbastanza aperti a tutte le proposte, quindi se è una sciocchezza, la verifichiamo, la buttiamo via e ne facciamo un'altra, non c'è problema. Stavo verificando che, ad esempio, molti di voi hanno insistito, soprattutto la signorina Veronica, il signor Marco ed altri, sulla necessità di un sostegno a carattere psicologico per affrontare una serie di problemi, prima, durante e dopo l'intervento, anzi, lungo tutta questa fase che consente, finalmente, - mi ha colpito molto la signorina Veronica - a dire che una donna che è una donna lo diventa finalmente completamente, questo è molto bello, quindi in questa lunga fase di riconquista della propria identità. Scusate se dico delle stupidaggini, ma è una cosa che mi affascina molto: mi invitano dappertutto, ma raramente ho ascoltato delle cose così interessanti. Vi ringrazio, perché alla mia età, con la mia mentalità e con una certa chiusura che comincio ad avere verso gli esseri umani in generale, che, secondo me, mi offrono sempre uno spettacolo molto poco gratificante, è una delle poche volte in cui veramente ho imparato tantissimo. Una cosa che mi colpiva, che non nominavate, era, ad esempio, l'utilizzazione di quanto c'è di pubblico, di gratuito e di buono - sottolineo il buono - già oggi, che, secondo me, dobbiamo invece far funzionare meglio.

Quando dite: "Abbiamo bisogno di un centro articolato, in modo che ci sia anche il sostegno psicologico, etc.", pensavo: perché non delle équipe integrate, con personale, ad esempio, dei centri di salute mentale, che per quanto riguarda il Lazio - ringraziando Dio, non si sa come - sono dei migliori d'Europa? Abbiamo delle realtà addirittura citate dall'OMS: quella della ex 12 ed altre. Credo che troveremmo senz'altro una grande disponibilità e direi di più: credo che possiamo addirittura chiedere a questi di fare loro un salto di qualità e di essere "formati" per affrontare questo tipo di tematiche, che forse per loro, tranne che per alcuni, ma per la maggioranza, credo siano ancora un po' estranee al resto del lavoro. Pensavo a questa cosa. Non c'è un aumento di spesa, funzionano meglio i servizi: se funzionano meglio per una categoria di cittadini, funzionano meglio comunque per tutti. E' come la storia dell'abbattimento delle barriere architettoniche: una città in cui le barriere architettoniche vengono abbattute non funziona meglio solo per i cittadini portatori di handicap, ma funziona meglio per tutti i cittadini. Puntare, quindi, su una riqualificazione, un coinvolgimento dei servizi - e i nostri sono veramente buoni: ne abbiamo alcuni che sono veramente eccezionali, che, secondo me, nessuno ha mai contattato, toccato da questo punto di vista - credo possa essere - ma è una mia opinione personale - un tentativo per vedere che spazi ci sono in un momento di così grande difficoltà economica.

Per quanto riguarda il discorso più strettamente chirurgico si tratta di vedere dove, in quale azienda ospedaliera è possibile ripetere la situazione del "San Camillo", con quali limiti, con quali problemi; se possiamo utilizzare il fatto che i secondi sei mesi del '95 si possono avere delle deroghe per il personale, etc.. Nel momento in cui si pone il problema di utilizzare meglio le risorse di tutti i generi che ci sono è molto più facile da far passare, in questo momento di grande stretta economica, un discorso in cui si chiedono nuove risorse, che sono difficili da avere. Pongo questo punto, perché conosco quella realtà e so quanto è dura. Vi dico quello che penso e quello che si potrebbe fare, per lo meno provarci: se ritenete che non si possa, per carità, ma per lo meno provarci.

Ultime due cose e sono anche queste dal mio punto di vista, molto personale, perché, torno a dire, è stato un pomeriggio particolarmente interessante, che mi ha molto arricchito e continuerà a farmi riflettere. La prima cosa è questa: non conosco questa legge di cui avete parlato, ma se veramente crea i problemi di cui avete parlato, cioè la difficoltà del riconoscimento dei titoli di studio, etc., è indubbio che quella legge vada cambiata. Non c'è dubbio sul fatto che se ci sono delle procedure particolarmente farraginose, che creano problemi ai soggetti che in base a quella legge, invece, devono trovare una via, vuol dire che è una legge fatta male, che non ottiene il fine per cui era stata fatta. Non ci trovo, quindi, nulla di scandaloso su una modifica di legge che viene incontro a delle esigenze sacrosante e che snellisce delle procedure, dei burocratismi, etc. L'ultima cosa - mi dispiace che Nicky sia andato via - è questa: sono abbastanza d'accordo, concettualmente, con il discorso che faceva Nicky Vendola. Non faccio più l'elogio della tolleranza, perché trovo che nella tolleranza ci sia già una situazione in cui uno tollera e uno è tollerato e già il discorso della tolleranza comincia a darmi fastidio. Non accetto più, ho grandi difficoltà nella mia vita di tutti i giorni ad accettare il concetto di tolleranza, per cui mi sono battuta per tutta la mia storia, per tutto quello che ho alle spalle: non voglio più che ci sia chi tollera e chi è tollerato. Per me ciascuno è una persona e va accettata così come è, con il suo passato, il suo presente, il suo futuro, le sue operazioni di tutti i generi. E' questo, credo che questo salto debba essere fatto e, modestamente, in piccolo, adesso comincio a farlo, in generale. Sto anche diventando, a mia volta, intollerante verso chi, etc. Il discorso è: "Tu sei razzista.". Sì, sono razzista verso i razzisti. Il discorso della tolleranza, quindi, già mi dà molto fastidio in questo senso.

Ultima cosa: ho sentito parlare del lavoro. Non sono un'esperta in materia, però c'è un'idea che mi veniva: probabilmente se il sindacato - a mio parere, invece di parlare delle borse-lavoro, cominciasse a fare un discorso più serio contro la cosiddetta flessibilità, che è diventata selvaggia e cominciasse a fare una lotta per cercare di salvaguardare il diritto del lavoro un po' a tutti, non farebbe male, transessuali e non, perché ci sono anche i padri di famiglia con tre o quattro figli che vengono licenziati e non è certo per discriminazione: vengono sbattuti sulla strada e lo sappiamo tutti. Un’idea che, però, mi veniva - e forse dovreste valutarla, però è un'idea - è questa: il sistema, ad esempio, delle cooperative di servizio. Ci sono grandi spazi, sto parlando di cooperative che fanno, ad esempio, assistenza post-acuzie per cronici. Io credo che anche lì ci siano degli spazi e non è una forma di assistenzialismo, perché si tratta di avere dei titoli di studio, una preparazione, costituirsi ed avere delle convenzioni con l'ente pubblico, come hanno tutti gli altri.

BETTY LEONE

Segretaria Confederale CGIL Nazionale

Questa riunione è stata fortunatamente più interessante di quello che ci aspettavamo. Confesso di avere qualche difficoltà a ritagliare il mio ruolo dentro questa discussione, che è una discussione molto intrecciata tra cercare di mettere a nudo le difficoltà che esistono nella condizione di transessuale e chiamare a responsabilità il Sindacato perché assuma impegni precisi. Il percorso non è semplice ed è stato evidente nel dibattito, in cui si sono espressi sia gli equivoci, sia le differenze di impostazione, credo perciò che dovremmo un attimo ripartire da quali politiche sono necessarie per sottrarre i problemi dei transessuali ai pregiudizi e alla marginalità.

Ritengo che le politiche da attuare sono di 3 tipi: la prima è, l'avete detto tutte e rimane quella fondamentale, la politica culturale che parte dall'affermazione del diritto di cittadinanza, al quale io do valore primario in quanto diritto ad avere diritti, ad essere cittadino e ad essere persona. cioè è di lì che nasce la mia possibilità di rivendicare diritti, e non solo aiuti, né elemosine.

Il diritto di cittadinanza riguarda tutti? Come si inserisce il diritto di cittadinanza nella diversità e nella differenza, come viene agito? Ha bisogno di politiche settoriali, che tengano conto dei problemi specifici, attinenti alla diversità o dobbiamo contestare la settorialità, perché è quella che in qualche modo dà un ruolo alla diversità e la fa diventare categoria sociale? E' giusto, cioè, ragionare delle prostitute, dei transessuali, dei gay o degli handicappati come categorie sociali o dobbiamo superare questo modo di fare politica?

Io penso che sia necessario superare l'idea che la diversità costituisca di per sé una categoria sociale; la diversità costituisce un problema, al quale va data una risposta differenziata, come a tutte le risposte rivolte alle persone, perché le persone comunque non sono quasi mai oggetto di interventi standardizzati, allora questa è la prima questione culturale da porre, perché da questa deriva la tolleranza e l'accettazione.

Credo, perciò necessario introdurre nella scuola, nel mondo del lavoro, la cultura dei diritti delle persone e della personalità. Perciò il lavoro culturale che dobbiamo fare ci riguarda tutti insieme, riguarda la sinistra, riguarda il sindacato che pure è veicolo di cultura, contribuisce a formare il senso comune e deve costruire una pratica contrattuale che metta al centro la persona, con il problema, il bisogno, la diversità o la differenza che ha. Infatti nel caso della transessualità agisce anche la differenza uomo-donna, producendo difficoltà e sofferenze. Naturalmente esistono esperienze diverse per esempio qualcuno che ha parlato prima di me ha detto che la sua esperienza non è stata segnata dalla sofferenza, sicuramente però la sua vita non è stata facile e il suo vissuto soggettivo positivo non può cancellare la sofferenza oggettiva che c'è nel dover affrontare numerosi ostacoli per affermare la propria identità e le proprie scelte.

Se il/la transessuale ha più ostacoli di altri nel proprio percorso di vita e di lavoro è necessario perciò attuare una politica di pari opportunità che rimuova gli ostacoli tenendo conto che esistono non solo problemi di inserimento sociale, nella scuola, nel lavoro, ma che spesso anche quando questo problema è risolto, rimane la difficoltà di affrontare il pregiudizio degli altri e di ricostruire la propria sicurezza. Il messaggio che viene da molti interventi è questo: non ci rispondete genericamente, aiutateci a diffondere informazione e a fare in modo che la gente ci accetti per quello che siamo "persone transessuali". Perciò sono necessarie non solo una politica culturale ma anche una politica dei servizi e una politica di inserimento nel lavoro, intendendo il lavoro come luogo di socialità e come uno degli strumenti per la costruzione di un'identità sociale.

Quando dico servizi, che cosa intendo? Intendo la possibilità intanto di avere in qualche modo appoggi e strumenti per superare la fase di accettazione del proprio problema, la scelta e la trasformazione cioè strumenti che possano fare scegliere il soggetto con cognizione di causa, ma che rafforzino la sua autodeterminazione. Questi servizi possono fare capo ai consultori, possono essere servizi ospedalieri, anche se questa tipologia è poco diffusa ed il servizio ospedaliero del S. Camillo è una eccezione che combatte oltretutto con la scarsità di risorse messe a disposizione dalla Regione Lazio. Esiste anche una serie di reti di servizi autogestiti dalle associazioni dei transessuali di cui bisogna tenere conto.

Le politiche dei servizi vanno condotte su due versanti: il primo è avere servizi pubblici con strumenti e fondi adeguati. Perché servizi pubblici? Perché i servizi pubblici testimoniano il riconoscimento di un problema e l'impegno della comunità ad affrontarlo. Sono essi stessi un riconoscimento sociale delle transessualità: bisogna naturalmente lavorare perché essi non si organizzino sul concetto di transessualità come patologia o devianza. Questo non esclude una responsabilità rispetto ai servizi auto-gestioni, che implicano un altro livello sia di coscienza, sia di volontà di organizzazione, che devono avere la possibilità di usare il pubblico per la consulenza, se lo scelgono, e devono avere mezzi per potersi auto-organizzare, cioè la politica del servizio pubblico non esclude una responsabilità pubblica nello stimolare, anche attraverso la finanza pubblica, la scelta autorganizzazione. Il pubblico dovrebbe mettere a disposizione risorse e competenze; questa è la politica che noi come CGIL cerchiamo di fare rispetto al rapporto servizio pubblico, servizio auto-gestito, non a caso dico "cerchiamo di fare", perché oggi è una politica molto complicata, non solo per le risorse finanziarie ridotte. Ma proprio perché non esistono scelte di re-distribuzione differenziata delle risorse che ci sono: anche se le risorse non sono molte, si possono ridistribuire in un modo o in un altro, e noi continuiamo nel campo della sanità a ridistribuire fondamentalmente verso l'ospedale classico. Probabilmente il sindacato deve impegnarsi di più a costruire piattaforme territoriali, in cui ci sia attenzione all'inserimento in servizi territoriali e consultori anche di specifiche professionalità.

La terza questione è quella che in qualche modo cercava di affrontare Massimo e che per noi è la questione centrale, perché siamo un sindacato, ed è la questione delle politiche del lavoro; se partiamo dall'idea che il lavoro rimane ancora oggi, nel bene o nel male, un luogo di identità sociale, è chiaro che ci dobbiamo porre il problema delle possibilità di entrare dentro il mondo del lavoro e di entrarci senza essere discriminati. Queste politiche oggi sono molto complicate, perché esiste non solo un mercato del lavoro frammentato, difficile, disorganizzato (c'è la chiamata nominativa che espone necessariamente al pregiudizio), ma perché ci troviamo di fronte a forme spinte di flessibilità. Infatti, il modo di produzione di oggi presuppone l'adattamento immediato alle richieste del mercato cioè non si lavora più sull'aumento del prodotto, ma si lavora sulla velocità di risposta alla domanda del mercato per reggere la competitività e questo crea un mercato del lavoro flessibile. Un mercato del lavoro di questo genere elimina i più deboli e i più deboli sono quelli che hanno difficoltà all'inserimento, allora è chiaro che questo non esclude le nostre politiche generali per contrastare la flessibilità, questo è il primo dovere di un sindacato, però la flessibilità esiste, e quindi abbiamo un altro dovere, quello di rafforzare i soggetti deboli dentro questo mercato del lavoro. Dobbiamo creare le condizioni perché anche i transessuali possano scegliere quale lavoro fare.

Si possono attuare politiche del lavoro che in qualche modo rendano più facile l'accesso? Anche questo oggi non è più così semplice perché, essendoci una fortissima disoccupazione soprattutto nel Mezzogiorno, quindi una concorrenza spietata, non è più facile neanche fare quelle politiche di incentivazione a cui qualcuno alludeva nel suo intervento e cioè forme di defiscalizzazione che sarebbero del resto di difficile applicazione a soggetti singoli e rischierebbero comunque di esporli al pregiudizio. Perciò noi ragioniamo sullo strumento delle borse di lavoro, sul quale stiamo lavorando da un po', rispetto a tutti i soggetti deboli. Ci sono alcune esperienze, per esempio Torino, su borse di lavoro e tutoraggio, in cui il sindacato costruisce una relazione con alcuni datori di lavoro pubblici e privati, per contrattare con loro progetti di inserimento e strumenti adeguati di incentivazione. Questo inserimento lavorativo può essere transitorio, nel senso che può servire semplicemente a rafforzare nel soggetto la fiducia nelle proprie capacità lavorative perché esistono problematiche di diverso tipo, che vanno affrontate con diversi strumenti.

Posso capire che per alcuni soggetti che hanno già una forte identità e sono arrivati ad affermare già la loro personalità, la forma della borsa di lavoro possa essere inadeguata ma non vorrei, come hanno fatto qui gli operatori, bocciare l'utilizzo della borsa di lavoro che se è all'interno di un progetto integrato e personalizzato può essere utile a far crescere autonomia e autodeterminazione. Naturalmente non è l'unica politica possibile dal momento che tutte le situazioni di disagio non accettano mai un approccio mono-culturale. Questo vale tanto più per un fenomeno come quello della transessualità che non può essere affrontato sul versante psicopatologico e che sino ad oggi non ha una definizione scientifica.

Mi ha colpito leggere che non ci sono criteri oggettivi per la diagnosi di transessualità e che valgono solo "i sentimenti e i pensieri dei transessuali". Perciò è impossibile avere un unico approccio al problema.

Infine il sindacato può avere un ruolo di pressione per la modifica della legge 164 superando l'idea che transessuale è solo chi si sottopone all'intervento chirurgico. Il sindacato, insomma, può attuare più politiche a partire dallo sforzo di modificare il "senso comune" dei propri iscritti sul fenomeno della transessualità. Questo, naturalmente, non lo esime dal suo compito istituzionale che è quello di tutelare qualunque soggetto nel proprio percorso lavorativo.